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Napolitano ancora sul Colle: soccorso rosso al referendum

L'ex presidente della Repubblica ribadisce il suo Sì: "Guerra assurda". E invita a ritoccare l'Italicum

Napolitano ancora sul Colle: soccorso rosso al referendum

Roma - Ahinoi, forse siamo tornati tutti all'asilo Mariuccia, non solo i grillini. Di sicuro ce lo siamo meritato (qualcosa dobbiamo aver fatto). Ci prendono per scemi. Comunque: avendo il presidente emerito Giorgio Napolitano promosso, accompagnato, tenuto per mano, protetto e blindato il governo Renzi con le «sue» riforme - ora non si sa più bene sue di chi, ma del singolare rimpiattino si dirà -, oggi troviamo assolutamente naturale ritrovare l'arzillo presidente nell'ultima ridotta, nel bunker dove si sogna notte e giorno l'«arma finale». Ovvero, il «Sì» al referendum confermativo.

Con lui e Renzi, ma anche questo ci sembrava scontato, il novello direttore di Repubblica, Mario Calabresi. Il passaggio è cruciale, dopo aver fatto dietrofront sulla personalizzazione della sfida, il premier deve cercare di smentirsi anche sul pervicace «niet» alle modifiche dell'Italicum, che potrebbero ammorbidire parte dello schieramento del «no» alle riforme (a partire da Scalfari e dagli alfaniani, sempre più titubanti). Cominciata la manovra da un paio di mesi, ecco che con Napolitano a dirigere il traffico anche l'evidente «inversione a U» di Matteo è consentita. Con arzigogoli che chi conosce Napolitano da una trentina d'anni trova anch'essi assai scontati: «Non ho mai creduto alla formula del combinato disposto», spiega per staccare le modifiche all'Italicum dal voto referendario (a proposito: non una parola sul vergognoso silenzio riguardo la data). Napolitano non vede alcun «pericolo autoritario... No, a mio avviso è in tutt'altro senso che c'è da riflettere sull'Italicum...». Segue un tortuoso cammino per dire in soldoni questo: la situazione è cambiata, vincono i grillini al ballottaggio, non possiamo consegnar loro il Paese. «Renzi promuova una ricognizione tra le forze parlamentari», l'invito a Matteo, già partito con la conta di chi ci sta.

Della solenne ma non irresistibile intervista al vecchio amico dei carri sovietici ci si ricorderà però anche per qualcos'altro. «Non riesce ad andare in pensione», scrive il fedele-nei-secoli Calabresi spargendo incenso. Passione politica?, può darsi. Il guaio è che il presidente emerito continua purtroppo a sentirsi Capo dello Stato in pectore. Cosa che rimane a dir poco inconcepibile. Anche un altro presidente, Cossiga, era solito dire la sua (eufemismo). Ma il garbo, l'ironia, diciamo pure la leggerezza di alcuni inviti, suggerimenti, persino di qualche veemente invasione di campo erano tutt'altro da questo plumbeo moto carrista di sottofondo alla legislatura più sfigata della storia (la XVII). Non a caso si evoca una «guerra alle riforme» che, se vogliamo, è stata quella innescata da lui e dal premier a noi cittadini. Avessero capito che questo Parlamento era in deficit di legittimazione, nulla sarebbe accaduto (magari nuove elezioni).

Invece, eccoci qui a sorbirci il Gran Mogòl reso inquieto dalla possibilità di un «no» al suo progetto - e forse ci sarebbe da chiedere, considerate alcune assonanze inquietanti, chi sia l'ispiratore di certi articoli che escono sulla stampa estera, immaginando chissà quali sconquassi da una bocciatura dell'impianto Boschi-Renzi-Napolitano. Già: di chi è 'sta bella riforma? Renzi s'è tirato ultimamente indietro: «di Napolitano», ha dichiarato. Ora King George fa lo stesso, con lapalissiana e furbesca retorica. «La riforma non è né di Renzi né di Napolitano, ma è quella su cui la maggioranza del Parlamento ha trovato l'intesa». Con quali passaggi inverecondi di casacca, promesse e contraccambi, Re Giorgio non dice.

Non c'era, se c'era sonnecchiava.

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