«Stiamo alla finestra e attendiamo il lavoro delle diplomazie» sussurrano all'Eni. E intanto il contabanconote gira. La nave Saipem 12000, capace di perforare fondali marini da 4mila metri con scarti di soli 25 centimetri, è un gioiellino invidiatoci da tutte le grandi compagnie petrolifere. Ma i gioiellini costano. E questo spiegano all'Eni divora dai 500mila ai 600mila dollari al giorno. Così lo scherzetto del presidente turco Recep Tayyip Erdogan che sabato ha mandato una fregata a bloccare la nave da ricerca al largo di Cipro, è già costato all'Eni oltre due milioni di euro. E altri ne andranno in fumo visto che le diplomazie non sembrano esattamente in frenetica attività.
L'Unione Europea, in attesa del risveglio di una Federica Mogherini in altre faccende affaccendata fa parlare i suoi portavoce. «È necessario che la Turchia mantenga relazioni di buon vicinato ed eviti qualsiasi genere di azione, frizione, minaccia o azioni dirette contro uno stato membro», faceva sapere lunedì la Commissione Europea. Parole a cui un Erdogan, abituato a ben altro, ha subito risposto con nuove minacce a Nicosia e - indirettamente - all'Eni e all'Italia: «Gli opportunistici tentativi riguardo alle esplorazioni di gas al largo di Cipro - sbraita - non ci sfuggono. Chi fa male i propri calcoli e si spinge al di là del consentito è avvisato». Per il Sultano la questione è semplice. A sentir lui gli eventuali giacimenti di gas scoperti nella cosiddetta «Zona Economica Esclusiva» concordata da Nicosia con Onu e Ue vanno divisi con il governo fantoccio mantenuto in piedi da Ankara nel nord dell'isola. In verità quel gas servirebbe a Erdogan per soddisfare le esigenze energetiche di una Turchia costretta, vista la dipendenza dal gas russo, a subire i diktat di Vladimir Putin. E così in questo gioco di rappresaglie incrociate Italia, Eni ed Europa si ritrovano a sottostare ai ricatti del Sultano. Ricatti particolarmente oltraggiosi per un'Italia che solo dieci giorni fa lo ha accolto con tutti gli onori. Onori non certo ricambiati, visto che il presidente turco non ha atteso neppure il rientro ad Ankara per rivelare come il solo e unico obbiettivo del viaggio fosse quello d'intimidire il nostro governo per convincerlo a bloccare le prospezioni dell'Eni. Operazione evidentemente riuscita visto il tono - sommesso e sottomesso - mantenuto dal nostro governo anche dopo l'arrembaggio della marina di Ankara. L'auspicio di una «soluzione condivisa» è stato il massimo dell'autorevolezza espressa ieri dal ministro degli esteri Angelino Alfano nel corso di un incontro in Kuwait con il suo omologo turco Mevlut Cavusoglu.
A compensare la titubante afasia dell'esecutivo Gentiloni contribuisce in parte il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani, che oltre a esprimere pieno sostegno al presidente cipriota Nicos Anastasiades chiede alla Turchia di «rispettare la legge internazionale e astenersi dal coinvolgimento in pericolose provocazioni nelle acque territoriali di Cipro». E alla voce di Tajani s'unisce quella del presidente del Partito popolare Europeo Joseph Daul, concorde nel definire inaccettabili «le provocazioni e le minacce della Turchia verso Cipro o qualsiasi altro Stato». Ma parole e dichiarazioni sono poca cosa rispetto all'«asso di migranti» nascosto nella manica di Erdogan. Grazie a quell'asso il presidente turco tiene sospesa sulla testa dell'Europa una spada di Damocle da tre milioni e mezzo di profughi.
Una spada in grado di creare devastazioni politiche, sociali ed economiche che neppure il giacimento di gas più ricco del Mediterraneo potrebbe ripagare. Quindi non illudiamoci. Alla fine da Bruxelles a Roma nessuno muoverà un dito. E assieme ai milioni dell'Eni andranno in fumo, una volta di più, la nostra credibilità e i nostri interessi nazionali.
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