«Nel Paese manca ancora un'idea per lo sviluppo La politica? Guardo avanti»

Corrado Passera: "Ho provato a fare il sindaco stando fuori dai partiti, ma l'establishment si è chiuso a riccio"

«Nel Paese manca ancora un'idea per lo sviluppo La politica? Guardo avanti»

Dottor Corrado Passera, ex giovanissimo consulente McKinsey; già numero uno dell'Espresso, dell'Olivetti, del Banco Ambroveneto, delle Poste, di Intesa Sanpaolo; ex ministro della Repubblica; che fine ha fatto?

«Nessuna fine, anzi sempre un nuovo inizio».

Tipo?

«L'attuale mia attività? Aiutare imprenditori in gamba a fare un salto in avanti: per taluni può essere un'occasione di crescita, per altri la soluzione di un grande problema. È un modello nuovo, unico. Una specie di advisor di creazione di valore. In certi momenti all'imprenditore servono molte cose, difficili da trovare tutte insieme: consigli, risorse di capitale e di credito, una rete di professionisti di qualità, manager, contatti in Italia e all'estero: metto a loro disposizione il meglio tra i consulenti sulla piazza e tutto quello che ho imparato e conosciuto nei miei ultimi trent'anni».

Chissà che caro.

«No, le ho detto che è un modello unico e la formula a molti imprenditori piace: il mio intervento di per sé non costa nulla, ma viene remunerato con una parte del valore che avremo contribuito a creare insieme.

Poco più di un anno era sceso in campo per fare il sindaco di Milano.

«Ero convinto che ci fosse una grande occasione da cogliere per Milano. Ci ho provato, ma non ci sono riuscito. Pensavo che un'esperienza abbastanza unica come la mia, nel privato e nel pubblico, potesse servire a Milano per accelerare il suo sviluppo e diventare capitale europea anche in tanti nuovi settori: dalla sanità all'università, dal non profit al turismo. Milano potrebbe aspirare a stare in cima alle classifiche europee e non dovrebbe accontentarsi di essere un po' meglio di Roma».

Non è andata.

«No perché l'establishment ha preferito un progetto nell'ambito di uno dei tradizionali schieramenti politici, sinistra o destra, Sala e Parisi. Volevo fare una cosa fuori dagli schemi dei partiti, ma la classe dirigente si è chiusa a riccio e ho capito che non ce l'avrei fatta. A quel punto ho dato il mio sostegno a Parisi».

Ma lei non è di sinistra?

«No, anche se credo in molti valori comuni alla sinistra, ma a Milano stare a sinistra era impossibile, con una amministrazione che lasciava la città senza progetti, avendo raddoppiato il fisco, diminuito gli occupati, senza riuscire a sollevarci dagli ultimissimi posti nella sicurezza e nell'inquinamento. Tutto quello che c'è di buono a Milano lo hanno fatto Moratti e prima Albertini».

E le famose primarie nazionali 2005 dell'Unione? Con i banchieri in fila a votare per Prodi? C'era anche lei.

«Quello era un passaggio storico: a quel tempo il valore era appoggiare Prodi perché trasformasse la sinistra in un centro-sinistra. Serviva un bipolarismo moderno e mi è sembrato utile favorire il tentativo di Prodi, anche da liberale quale sono».

Forse in molti non gliel'hanno perdonata. Così come non è facile, per altri, appassionarsi alla figura dell'«ex banchiere», l'uomo dei «poteri forti». Un bell'handicap politico: che ne pensa?

«Pensavo che la disponibilità che ho dato nella mia vita ad andare a guidare le Poste sull'orlo del fallimento, poi a lasciare la prima banca italiana (e uno stipendio da top-manager, ndr) per andare fare il ministro in un momento drammatico, infine a rimettermi in gioco per fare il sindaco avesse compensato quella mia provenienza. Ma non era così. E le dico che è comprensibilissimo: quando un Paese è così mal gestito per anni e anni, è normale che si cerchi un colpevole. E certo, io sono stato e sono parte di una classe dirigente che nel suo complesso ha fallito, e non è poi affatto facile distinguersi».

Una classe dirigente che ha fallito?

«Sì, il nostro Paese è stato negli ultimi decenni mal guidato da una classe dirigente che non ha risolto i problemi endemici e ha perso quasi tutte le opportunità. Il nostro primo problema sta proprio nella selezione delle leadership e il fatto di trovarci in buona compagnia nel mondo non deve consolarci».

Certo, il governo Monti, quello in cui ha fatto il ministro dello Sviluppo, non ha aiutato dal lato dell'empatia. Eppure lei era la voce più espansiva.

«Eravamo sull'orlo del fallimento e bisognava evitare che arrivasse la Troika. Solo per questo ho rinunciato al mio posto in Intesa Sanpaolo. E i primi provvedimenti del governo sono andati correttamente in quella direzione. Ma poi è mancata una politica per lo sviluppo, che era il motivo per cui avevo accettato l'incarico. Con Mario Monti abbiamo avuto forti diversità di vedute e sono stato più volte vicino a dare le dimissioni. Che non ho dato solo per senso del dovere e per rispettare gli impegni che avevo preso».

Dimissioni per cosa?

Per esempio sui debiti delle Pa, ma alla fine l'ho spuntata, anche se i governi successivi non hanno eliminato questa vergogna nazionale. Monti e Grilli erano convinti che si dovesse tagliare e basta, io no. Al nostro Paese mancano gli investimenti, privati e pubblici, per vincere la quarta rivoluzione industriale».

È vero che lei voleva andare al Tesoro?

«No, non mi è mai stato proposto, era previsto che lo facesse lo stesso Monti fin dall'inizio di quel progetto».

Dica: in Italia ha più potere un ministro o l'ad di Intesa Sanpaolo?

«Il vertice della prima banca italiana è un ruolo di grande potere e di grandi responsabilità verso il Paese. Come potere personale ha certamente più potere l'ad di Intesa, ma come possibilità di influire sul futuro della nazione conta di più un ministro di un dicastero importante».

Intesa ha attraversato la crisi delle banche, tra il 2008 e oggi, difendendosi meglio delle altre, tra cui Unicredit che, come si è visto poi, aveva molte più sofferenze. Perché?

«Il nostro successo è derivato innanzi tutto dall'aver unito grandi forze e culture: Intesa appunto, che portava con sé Comit e Cariplo. E San Paolo che a sua volta aveva Imi. Poi certamente è servito evitare alcuni pericolosi bubboni immobiliari e anticipare la crisi insieme ad alcuni nostri grandi clienti».

Tra le attività della sua esperienza lei ha risanato le Poste, dove lavoravano 190mila dipendenti pubblici; ha costruito Intesa Sanpaolo, un gruppo da 100mila lavoratori privati; ha guidato

un ministero complesso. Non le mancano, oggi, queste dimensioni?

«Se mai mi mancano tante di quelle persone con le quali ho condiviso momenti durissimi ed entusiasmanti. Ma per il resto ho sempre guardato avanti».

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