Domani, al Nazareno, si riuniscono i gruppi parlamentari del Pd. All'ordine del giorno, la posizione da assumere nel prossimo giro di consultazioni al Quirinale, e quindi le risposte da dare alle avance di Luigino Di Maio, l'aspirante premier grillino che ancora non ha capito quale taxi sia disposto a portarlo a Palazzo Chigi.
«Aspetto le evoluzioni interne al Pd», diceva Di Maio. E ieri sera, a Che tempo che fa, il reggente del Pd Maurizio Martina ha confermato il no alle sue aperture: «La nostra posizione non cambia: non saremo il piano B di altre forze politiche. Restiamo coerenti, non cerchino di tirarci per la giacca quando non riescono a risolvere le loro ambiguità. Non siamo disponibili». Stiano «sereni» Salvini e Di Maio, aggiunge: «Non sosterremo mai un governo di altri», perché «non possiamo dimenticare la grande diversità di programmi e ideali» che separa il Pd dai presunti vincitori.
Quella di martedì sarà comunque una scadenza delicata per il Pd. Non tanto per le sorti di un eventuale governo Cinque Stelle con l'appoggio dei Dem, ipotesi scartata ieri da Martina e considerata realistica solo da alcuni personaggi di secondo piano, come il governatore pugliese Emiliano, già grillino di complemento, o il parlamentare Francesco Boccia (che spera di diventare, con i voti di M5s, presidente della Commissione speciale di Montecitorio), quanto per la tenuta dello stesso Pd.
La diatriba tra aventiniani e non-aventiniani, tra «spiraglisti» (coloro che vedono «spiragli» e «passi avanti» da parte dei grillini) e non-spiraglisti è soprattutto un gioco di posizionamenti interni ai Dem: dichiarare ufficialmente archiviato l'Aventino e rendersi disponibile al dialogo sul governo da formare equivarrebbe a delegittimare la linea renziana, e dunque ad archiviare la leadership - sia pur dietro le quinte - dell'ex premier che, come l'ombra di Banquo del Macbeth, continua ad aleggiare negli incubi dei dirigenti Dem. Insomma, sarebbe l'avvio formale della «de-renzizzazione» del Pd auspicata da molti dei big del partito, e consentirebbe di arrivare all'Assemblea nazionale del 21 aprile senza ipoteche, e provare a riprendersi il volante del partito dopo i quattro anni renziani. Renzi nel frattempo non ha ancora deciso cosa fare in quella sede: se votare un mandato condizionato al reggente Martina o puntare su un congresso entro l'anno che congelerebbe lo status quo. «Ma in questo momento non ci servono le conte», dice Martina. L'ex premier ieri era su tutte le furie per le voci secondo le quali potrebbe congelare le proprie dimissioni e restare in campo: «Renzi si è dimesso davvero, ma non gli si può impedire di avere un pensiero politico», smentisce Richetti. L'opzione congresso è stata caldeggiata ieri proprio da Richetti, renziano «critico» in via di autonomizzazione, che ha ufficializzato - in quel caso - l'intenzione di candidarsi alla segreteria, via primarie «aperte». Sul dialogo con i Cinque Stelle, però, Richetti resta sulla linea renziana: «Nell'intervista a Di Maio c'è un passo avanti nei toni, se non altro perchè non ci definisce più come idioti mafiosi disonesti. Poi però dice che lui non governa perché il Pd gli ha fatto una legge elettorale contro. Lui che voleva il proporzionale puro con il quale non avrebbe mai governato.
Con questa disonestà intellettuale non si va da nessuna parte», chiude la porta. Poi, certo, «si discute con tutti», ma le «distanze» con i grillini sono troppe. E infatti, dice, «nessuno nel Pd ipotizza realmente una maggioranza politica con loro».
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