RomaGli chiedono un nome, lui risponde che è troppo presto. «No, non voglio entrare nel dettaglio» della scelta del nuovo capo dello Stato, dice Matteo Renzi ai parlamentari del Pd, c'è già stata un'ecatombe di aspiranti al Soglio, non possiamo bruciare altri candidati. Perciò, conclude, «prima del merito noi dobbiamo rivederci per impostare un metodo».
Glielo chiederanno, quel nome, anche martedì prossimo, il 13, quando a Strasburgo davanti all'Europarlamento chiuderà il semestre di presidenza italiana della Ue. Merkel, Hollande e Juncker vorranno notizie fresche, vorranno sapere chi succederà a Giorgio Napolitano, chi salirà sul Colle, chi farà da scudo e da garante per conto del Belpaese, ora che si avvicinano gli esami di riparazione della Unione sui nostri conti pubblici e la «verifica» sul cammino delle riforme promesse. Ma il premier, almeno ufficialmente, avrà poco da dire, se non promettere «una scelta di alto profilo». Renzi infatti gioca ancora a carte coperte, favorito nella sua strategia dal fatto che Napolitano resta nella pienezza dei suoi poteri fino alle sue dimissioni. Sarebbe assai scorretto di parlare del futuro presidente mentre l'attuale è ancora il carica. In questa maniera può fronteggiare il primo assalto dei suoi parlamentari. «Vediamoci per concordare il metodo dell'elezione del capo dello Stato, le riunioni non ci danno noia». Dovrà essere, sostiene, un confronto trasparente, aperto. «È importante che ci assumiamo la responsabilità di parlare al Paese. Quando sarà il momento il Pd dovrà aprire un dibattito non sul nome ma sulla funzione dell'istituzione del presidente della Repubblica».
La partita del Quirinale è del resto legata a filo doppio con quella delle riforme e incontrando i gruppi Renzi trova il modo di ricordarlo. «Sono un architrave, se viene meno casca giù tutto». E si torna al voto: carica o no, la pistola elettorale sembra funzionare, almeno nel Pd, e la prima giornata dell'Italicum al Senato, che doveva essere di passione, non provoca grandi tensioni. Siamo solo all'inizio, le trappole scatteranno, però il premier ha tutto l'interesse a non scoprirsi adesso sul Colle. Preferisce mettere agli atti i segnali positivi che arrivano dalle opposizioni interne. Da quella dialogante di Matteo Orfini, presidente del partito, che spiega come «il Pd si discute molto, ma ha dimostrato un notevole grado di unità». A quella più ostile di Francesco Boccia, capogruppo della commissione Bilancio a Montecitorio: «Il Pd ha il dovere di compattarsi, non è sbagliato ipotizzare un metodo Segni su un nome condiviso».
Anche per Forza Italia «è prematuro» tracciare identikit.
«Ma dopo tre presidenti che il centrodestra di questo Paese, che è maggioranza, ha vissuto come sbilanciati verso sinistra - avverte Giovanni Toti - ce ne piacerebbe uno che i nostri elettori, e quel blocco sociale che rappresentiamo, possa considerare un arbitro imparziale».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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