Politica

Non c'è mai fretta, è il Quirinale bellezza

Ma no, basta, pure il toto data del toto Quirinale. Anche la politica non sfugge alla socializzazione del presente, la riduzione a un clic del concetto spazio-tempo.

Non c'è mai fretta, è il Quirinale bellezza

Ma no, basta, pure il toto data del toto Quirinale. Anche la politica non sfugge alla socializzazione del presente, la riduzione a un clic del concetto spazio-tempo. Non esistono più attese, tempi morti, rituali da rispettare. E il cittadino dinanzi a un appuntamento politico come l'elezione del presidente della Repubblica diventa un utente mediatico che non può più aspettare le scadenze del mondo reale. Si percepisce uno sbuffo collettivo, un'insofferenza di base, come se l'appuntamento solenne delle Camere riunite fosse una serie tv da cannibalizzare con un binge watching famelico. Stappare una birra, decidere di andare dormire alle 6 del mattino e buttarsi sotto la doccia sapendo già chi è stato eletto. E poi cambiare programmazione, magari sintonizzandosi sul Festival di Sanremo.

Anche i politici meno accorti sembrano passanti smarriti dinanzi a questa mega rappresentazione senza copione, che non regala anticipazioni sulla trama e soprattutto sul gran finale. L'ex premier Matteo Renzi sembra rabbonire l'opinione pubblica con una previsione di buon senso: «Ci sono tre o quattro ipotesi. Agli italiani dico: è complicato, ma giovedì o venerdì avremo un presidente. Non vi preoccupate se ora c'è una girandola di nomi». Lunedì no alla prima votazione con maggioranza qualificata? E perché non domenica o ancora il mercoledì successivo?

Nella storia repubblicana non c'è mai stata altra competizione così anomala, mai uguale a se stessa nelle tredici volte in cui il Parlamento ha eletto in seduta comune il capo dello Stato. Con la pandemia in corso si fanno riferimenti storici al tragico 1978, l'anno in cui il presidente della Repubblica in pectore Aldo Moro fu sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse. Si chiese una risposta rapida alla politica che l'8 luglio, appena due mesi dopo l'esecuzione dello statista Dc, si impantanò invece per 16 scrutini prima eleggere il socialista Sandro Pertini. E si era sotto scacco dell'eversione. Pure nella buia Italia del 1971, che era sprofondata nel baratro del terrorismo con la bomba di piazza Fontana del 1969, la reazione del Palazzo fu ancora una volta debole e logorroica. Ventitré scrutini per scegliere un notabile democristiano come Giovanni Leone, che passò per il rotto della cuffia grazie ai voti decisivi del Movimento sociale di Almirante. Strappò il record negativo di sedute a vuoto al socialdemocratico Giuseppe Saragat (1964), che la sinistra chiamava con perfidia «Giuseppe Barbera» attribuendogli una passione smodata per i vini del suo Piemonte.

Altro primato negativo nel 1992, in piena minaccia mafiosa. Fu l'attentato a Falcone a portare alla proclamazione di Oscar Luigi Scalfaro, dopo 15 inconcludenti scrutini avulsi dalla tragicità del momento.

A parte altre tre elezioni lampo alla prima seduta (De Nicola nel 1946, Cossiga nel 1985 e Ciampi nel 1999) tutte le altre tornate hanno richiesto almeno la quarta votazione, quella fatidica che introduce la maggioranza semplice. Forse sarà così anche questa volta, al netto di intuizioni geniali inesistenti o abilmente coperte. La fretta non è mai buona consigliera, soprattutto quando diventa un espediente politico per snaturare le trattative o fregare il papabile di turno. Ma è sempre stato così.

È il Quirinale, bellezza.

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