«Non ho paura». Il Paese ora cerca unità

Felipe VI in piazza con Rajoy e il governatore catalano

Roma La Spagna è tornata nel mirino del Jihad, forse persino di un folle sogno di Reconquista (al contrario) di «Al Andalus», come la chiamano gli arabi fin dai tempi del Califfato.

Ma se il lutto nazionale viene vissuto con speciale partecipazione da tutte le forze politiche, dai giornali come dagli artisti dello spettacolo ai campioni dello sport; se ieri sulle Ramblas è tornata la folla, hanno riaperto i negozi e al minuto di silenzio per le vittime hanno partecipato il Re Felipe VI, il premier Rajoy, il governatore di Catalunya Puigdemont, oltre tutte le autorità locali, gli attentati tuttavia arrivano in un momento assai particolare per i rapporti tra il governo centrale di Madrid e quello di Barcellona. Così gli appelli all'unità si sono sprecati. A cominciare da quanto si leggeva ieri sul profilo ufficiale Twitter di Casa Borbone: Felipe VI ha condannato l'attentato definendo gli autori «assassini, semplicemente criminali che non riusciranno a terrorizzarci. Tutta la Spagna è Barcellona. Le Ramblas torneranno ad essere di tutti». Il sindaco Ada Colau ha ribadito che Barcellona è «una città di pace e accoglienza. Non arretreremo, siamo orgogliosi della nostra diversità». Di «battaglia globale contro la democrazia», ha parlato Rajoy, sottolineando l'importanza di «riuscire a lavorare assieme come una squadra» e comparendo, in piazza e davanti alle telecamere, sempre assieme a Puigdemont. E se la gente in Plaza de Catalunya continuava a urlare «non ho paura» al termine del minuto di silenzio, resta il sospetto tremendo che le cellule islamiste abbiano potuto attecchire anche per le forti divisioni e la mancanza di coordinamento che negli ultimi mesi hanno vissuto Madrid e Barcellona. «Meschino chi collega gli attentati e i piani indipendentisti del governo», ha dichiarato subito il presidente catalano Puigdemont, assicurando che quanto accaduto non modificherà la road map su un «processo secessionista» che prevede persino un referendum considerato illegale dal governo centrale di Rajoy. A ogni passo del parlamento di Barcellona verso la secessione, Rajoy è intervenuto bloccandolo con ricorsi al Tribunale costituzionale. E a fine luglio il governo spagnolo ha imposto un controllo settimanale sull'impiego dei fondi statali devoluti alla Catalunya per evitare che siano usati per le spese per il referendum. Nel frattempo, Puigdemont aveva anche avviato una specie di purga, che ha fatto cadere molte teste nella polizia locale. Ieri i maggiori quotidiani come El Pais o El Mundo si chiedevano se le autorità catalane, incentrando tutta l'agenda sull'indipendenza, non avessero dimenticato che la Catalogna è la regione che ha il maggior problema di fondamentalismo islamico.

Una sensazione d'insicurezza e paura che ha dominato le reazioni sui social e che ora è destinata a diffondersi anche se avrebbe bisogno di risposte concrete. «Sii forte Barcellona», ha scritto Messi, capitano dei Blaugrana, mentre il rivale Ronaldo, capitano del Real, si definiva «costernato». Unidad, chiedono oggi gli spagnoli. Prima che sia troppo tardi.

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