I rugbisti hanno un vecchio modo di dire: «Ha passato la palla». Ed è il loro trucco per edulcorare la realtà della morte, la faccenda banale e cruda di una presenza consueta che diventa per sempre e irreparabilmente assenza. Nessuno, nel rugby milanese, era una presenza solida e certa come Francesco Azzolari. Eppure non aveva mai giocato in vita sua, al rugby era arrivato nel 1981 accompagnando al campo suo figlio Sergio. Gli si aprì un mondo, ma lui ricambiò aprendo al Rugby Milano prospettive nuove: quelle dove la passione si nutre di concretezza, dove il clima da birra e da caciara non ingarbuglia il fare. Dirigente del suo club, poi presidente del comitato lombardo della Federazione, poi consigliere federale; il ricordo più nitido glielo riserva Isabella Doria, pioniere del rugby femminile, che al comitato lo ebbe come capo: «Diciamo la verità, in alcuni momenti mi faceva davvero impazzire. Ma la sua pignoleria, la sua precisione quasi maniacale, hanno fatto di me quello che, lavorativamente parlando, sono adesso». E senza Azzolari non sarebbe nato il nuovo campo all'Idroscalo, la casa del Rugby Milano che era il primo ad aprire ogni mattina. Muore a 76 anni, tre giorni fa. E ieri il virus uccide anche un uomo la cui vita si era incrociata drammaticamente con quella di Azzolari: Vito Capuzzoni, padre di Massimiliano, il «Capu» che del Milano di quell'epoca era il fuoriclasse, e che un giorno d'estate del 1995, a ventisei anni appena, non era più emerso da un'immersione subacquea.
Va avanti così, giorno per giorno, questa strage. Cadono soprattutto uomini che l'aridità delle statistiche considera anziani, come per alleviarne il peso della perdita. E che invece sono non solo la memoria di una comunità ma spesso pezzi vitali, fattivi quanto e più dei giovani. Come il rugbista Azzolari. O come il fotografo Flavio Marinoni, bergamasco doc, uno che con la macchina a tracolla aveva girato il mondo, mosso da curiosità quasi insaziabile, e quello che non era a portata del suo obiettivo lo snidava dai meandri della fantasia, traducendolo in quadri e sculture. Passione e tecnologia, chilometri nelle scarpe e steadycam, droni e riprese sottomarine, tutto ciò che all'aria o in acqua avesse senso riprendere era nel suo mirino. I sessantacinque anni gli avevano incanutito i baffoni ma non la voglia di fare. Sotto l'imperversare del virus era rimasto nella sua Rovetta, vicino all'epicentro. Quando lo avevano portato nell'ex sanatorio di Piario sembrava che fosse destinato a scamparla, poi peggiora e lo trasferiscono a Milano, all'Auxologico. Muore domenica. «Mi ha insegnato l'amore per la fotografia e il valore di fotografare», dice il figlio Morgan, che ha seguito le sue orme. E la moglie Renata Nonis sparge come un ricordo le note della canzone di quando, nel '75, lei e Flavio si erano conosciuti. É Harvest, di Neil Young.
Muoiono gli anziani, i vecchi, i vecchissimi: come don Erasmo Mazza, che a Garessio - tremila anime, su nelle valli cuneesi - aveva battezzato, sposato e sepolto generazioni. A novant'anni era ancora in pista, per tutti «il don», certo e immutabile come il profilo delle montagne, e che invece se ne ritorna alla casa del Padre tre giorni dopo che lo hanno scoperto positivo.
O come Giulio Titta, 73 anni, medico torinese, uno che per tutta la vita è andato nelle case dei suoi pazienti, che li ha considerati volti e non numeri: e che cede anche lui in fretta, un giorno il tampone positivo, l'indomani il ricovero, una manciata di giorni ancora e in casa è suonato il telefono, la chiamata temuta, definitiva: Se n'è andato. E così Giulio ha pagato anche lui il suo tributo come tanti servitori della collettività, i carabinieri, i preti, gli infermieri, tutti al loro posto fino alla fine.
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