La droga al Cocoricò? Lo svelammo 18 anni fa

Il nostro cronista nel '97 si finse cliente per acquistare Ecstasy: ecco come andò a finire

La droga al Cocoricò? Lo svelammo 18 anni fa

Diciotto anni fa eravamo tutti molto più giovani, la seconda Repubblica era appena cominciata e internet era agli albori; ma i droga-party al Cocoricò di Riccione, la discoteca chiusa in questi giorni dalla Procura dopo l'ultimo morto di overdose, erano già consuetudine. Il tempio della movida romagnola, per così dire, è il ricordo più vivido di un'inchiesta che mi portò a girovagare nottetempo tra le discoteche romagnole nell'agosto del '97 alla ricerca di droghe giovanili. Che già non erano più quelle maggiormente in voga nel decennio precedente, cannabis in testa. Le droghe consumate dai ragazzi, prevalentemente teenager, erano ormai quelle chimiche, annoverate sotto il titolo di extasy ma che nel gergo giovanile assumevano gli epiteti più strani: «chicche», «paste», «cale» eccetera.

Il Cocoricò, per fama già meritata sul campo, era in testa alla mia agenda di indirizzi anche se, trovandomi in solitudine in un ambiente totalmente sconosciuto, non sapevo quanto tempo la mia ricerca di sostanze sballanti avrebbe comportato. Il primo impatto, all'ingresso della discoteca, fu quello di una calca di ragazzini che ancor prima di entrare sembravano già in un altro mondo, altrimenti era difficile capire perchè ballassero senza musica (gli i-pod non c'erano ancora...). Una volta entrato, ebbi la sensazione di trovarmi in uno stadio più che in un locale: una gigantesca bolgia (migliaia? centinaia di migliaia?) si agitava sotto la luce dei fari e il martello assordante della «musica» techno, praticamente impossibile da sopportare per oltre cinque minuti senza l'uso di additivi. Pensai.

Non ebbi il tempo di ipotizzare a chi rivolgermi per le mie esigenze (giornalistiche) quando venni avvicinato da un soggetto in maglietta adidas il quale, forse vedendomi un po' spaesato, mi sussurrò una frase del tipo «che ti serve?». Con prontezza di riflessi risposi «e tu che c'hai?». Risposta: «quello che vuoi, le batman, le colombine, se vuoi pure un acido». Fingendo di saperla lunga gli dico: «Fai una, una e una». La rapida compravendita, allora in lire quindi sicuramente più conveniente, avvenne nel viavai dei bagni.

Fatta la mia scorta, continuai il safari al Cocoricò fino a ritrovarmi in quella che una ragazza dello staff presentò come la «camera di decompressione». Ricordo una sorta di giardino surrelista con al centro una tenda in stile sahariano dove troneggiava la guest star della serata: era il (famoso?) «principe Maurice» tutto avvolto in un mantello nero, cranio lucido intarsiato da un grande tatuaggio floreale e, dulcis in fundo, lenti a contatto bianche che gli davano l'allure dell'alieno. Ricordo ancora come si presentò: «Sono un accompagnatore mentale».

Uscito finalmente a riveder le stelle e terminata l'inchiesta con altrettanto successo in altre discoteche, pubblicai il resoconto della mia brevissima estate romagnola; non prima di aver consegnato a un incredulo appuntato il mio ricco bottino e alla segreteria del Giornale la più inusitata delle note spese. La seconda parte della storia arrivò dopo, quando fui contattato da un talk show di Maria De Filippi per raccontare brevemente quello che mi era capitato. Accettai senza sapere che la già scaltra conduttrice aveva invitato alla stessa puntata i gestori del suddetto Cocoricò, i quali mi aggredirono verbalmente accusandomi di essermi inventato tutto. La De Filippi fece un po' come a Uomini&Donne , era la mia parola contro la loro eccetto, ovviamente, tutte quelle pasticche che secondo il Cocoricò potevo anche essermi portato da casa.

Ero ovviamente piuttosto scocciato anche perchè (il tempo è tiranno, diceva Biscardone) a stento la Maria nazionale mi concesse una brevissima replica. Corsi e ricorsi storici: sono passati vent'anni, un po' di ragazzi morti e alla fine c'è voluto un questore per dire che lo spettacolo non deve continuare.

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