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Una nuova rivoluzione dello zafferano. In Myanmar una domenica di proteste

In piazza decine di migliaia di persone a Yangon e in altre città. Finora il regime non ha usato il pugno duro, ma fino a quando?

Una nuova rivoluzione dello zafferano. In Myanmar una domenica di proteste

Domenica decine di migliaia di manifestanti sono tornati nelle strade delle principali città del Myanmar per gridare il loro dissenso contro il colpo di stato del primo febbraio e chiedere l'immediata liberazione di Aung San Suu Kyi e di tutti gli esponenti del National League for Democracy (Nld) arrestati negli ultimi giorni. «Non vogliamo la dittatura militare, vogliamo la democrazia», è stato uno degli slogan urlati a gran voce durante le manifestazioni. In molti hanno anche fatto il saluto con le tre dita che, ispirato ai film Hunger Games, è diventato il simbolo delle proteste antigovernative dello scorso anno nella vicina Thailandia.

A Yangon, dove si è tenuta la dimostrazione più numerosa, i manifestanti volevano dirigersi verso il municipio, ma sono stati bloccati in più punti dalla polizia antisommossa. Altre proteste si sono svolte a Naypyidaw, Mandalay, Magwe, fino ad arrivare a Bagan patrimonio mondiale dell'Unesco e anche nelle zone etniche, come nella città della giada Hpakant nello Stato Kachin e Myawaddy nello Stato Karen.

Ci sono state manifestazioni anche a Pathein, nel delta dell'Irrawaddy e Moegyoke, famosa per essere la capitale dei rubini. Nel frattempo non si sono fermate neanche le proteste notturne, dove le persone hanno continuato a sbattere pentole e padelle in segno di dissenso. Un'antica pratica animista che tradizionalmente viene associata alla cacciata degli spiriti maligni. Le manifestazioni antigovernative di questi giorni sono le più grandi in Myanmar dopo la Rivoluzione dello zafferano portata avanti dai monaci buddisti nel settembre del 2007, che si è conclusa con l'uccisione di decine di persone e centinaia di arresti. Una repressione guidata proprio dal generale Myint Swe, l'attuale presidente ad interim del Paese. Fino ad ora i militari non hanno usato il pugno duro per soffocare le proteste, ma se le manifestazioni continueranno non è escluso che vengano represse violentemente, come successo più volte in passato.

Proprio per questo, Tom Andrews, relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Myanmar, ha esortato l'esercito e la polizia a «garantire il pieno rispetto del diritto alle proteste pacifiche» e ha chiesto che «i manifestanti non siano soggetti a nessun tipo di rappresaglie».

Oltre ad Aung San Suu Kyi e ad alcuni dei suoi migliori collaboratori, sono state arrestate numerose persone. Il numero preciso non è stato reso pubblico, ma nel fine settimana il gruppo di monitoraggio dell'Assistance Association for Political Prisoners, ha detto che sono più di 150 quelle che si trovano ancora sotto custodia dei militari.

Anche il Papa, al termine della preghiera dell'Angelus di ieri ha espresso la sua preoccupazione per il delicato momento che sta attraversando il Paese. «In questo momento così delicato, desidero assicurare nuovamente la mia vicinanza spirituale, la mia preghiera e la mia solidarietà al popolo del Myanmar e prego affinché quanti hanno responsabilità si mettano con sincera disponibilità al servizio del bene comune, promuovendo la giustizia sociale e la stabilità nazionale per un'armoniosa convivenza».

Intanto l'accesso a internet nel Paese è stato ripristinato in maniera parziale, dopo diversi giorni di completo blackout arrivato in contemporanea con il colpo di stato della settimana scorsa. Ma rimangono ancora bloccate tutte le piattaforme dei social network.

«I generali stanno ora tentando di paralizzare il movimento di resistenza dei cittadini e di tenere il mondo esterno all'oscuro tagliando le comunicazioni», ha detto Andrews.

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