Il boato dell'«Orcolat» arrivò poco dopo le 21, a spazzare via di polvere e terrore il vociare intimo e discreto di tavole ancora imbandite per la cena. Scelse una notte di primavera, quella del 6 maggio 1976, per rovesciare il tempo che scorreva lento e sospeso nelle abitudini delle case aggrappate alle pendici della montagna friulana. Per soffocare la vita sotto le macerie e marchiare per sempre quella chi è sopravvissuto.
Quarant'anni fa il Friuli si risvegliò in un incubo da 6.4 di magnitudo della scala Richter, 989 morti e 137 comuni bombardati. Oltre 3mila feriti, 100 mila persone senza più un tetto sopra la testa perché 75 mila case rimasero danneggiate, 18 mila finirono rase al suolo. E non era ancora finito. Il terremoto tornò il 15 settembre a buttare giù con la forza di una nuova scossa ciò che aveva osato resistere. «Il Friuli ringrazia e non dimentica»: il ricordo della solidarietà dei soccorritori e dei volontari giunti da tutta Italia scolpito nei muri spezzati di allora è rimasto indelebile nei cuori di un popolo intero, di chi c'era e di chi quegli attimi li ha vissuti nelle testimonianze. Dopo il dolore, venne poi la dignità e la ricostruzione. Quella del «modello Friuli», del «prima le fabbriche, poi le case e infine le chiese»; quella che vide Gemona, Venzone, Osoppo e gli altri paesi ricostruiti esattamente «dov'erano e come erano», rifiutando insediamenti diversi. Quella del coraggio di affidare ai sindaci la guida di tutte le forze a disposizione, anche quelle messe dallo Stato, mettendo da parte con intelligenza e pragmatismo il centralismo. Pietra dopo pietra, con decine di migliaia di volontari, il Friuli rinacque.
Diventò il simbolo di un nuovo approccio alle calamità. All'alba del 24 agosto, di fronte alla terra squarciata al centro Italia, ha inviato subito una colonna mobile della Protezione Civile. Il Friuli non dimentica. LoBu
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