È finita nel peggiore dei modi, dando ragione alle previsioni dei pessimisti che dopo la catastrofe della «grande caccia» dicevano: lo prenderanno solo quando si metterà di nuovo nei guai, quando la sua ferocia e la sua fortuna non basteranno a farla franca. E così è stato, a catturare Igor non è stata l'efficienza delle istituzioni ma quella della statistica: non poteva andargli sempre bene. Ma sul terreno sono rimasti altri tre morti. È l'ultima conseguenza di una serie di errori quasi inverosimile, iniziata ancora da prima che Igor diventasse famoso ammazzando a Budrio il barista Fabbri: più esattamente nel 2015, quando espiata la pena per alcune rapine viene scarcerato ma non espulso dall'Italia, sottovalutando clamorosamente la sua pericolosità.
Da almeno un mese il ministero degli Interni italiano sapeva con certezza che Igor-Norbert era in Spagna, ma una operazione degna di questo nome per catturarlo non è stata organizzata. D'altronde la stessa cosa era avvenuta in Italia, quando - dopo il delitto di Budrio, il 1° aprile - la caccia era stata gestita unicamente dai carabinieri, con la vistosa assenza della polizia, e con modalità militari: posti di blocco, elicotteri, irruzioni nei casolari. Per settimane si è inseguito un fantasma nascosto nei canali ad alimentarsi di bacche, invece di frugare gli ambienti in cui il serbo - che è tutt'altro che un cane sciolto, un lupo senza legami - aveva contatti e appoggi: i clan rom di Berra, a ridosso del Po. Cinque esponenti di quei clan ora sono indagati per avere aiutato la fuga del serbo, per averlo aiutato a rompere l'assedio intorno a Molinella; e non è escluso che siano gli stessi ambienti che lo hanno accompagnato nella fuga verso la Spagna. Ma è un risultato investigativo arrivato fuori tempo massimo, con altri tre morti sul terreno.
«Nessun elemento investigativo o di rilievo per la sicurezza pubblica ci è stato comunicato», recita un dispaccio della questura di Ferrara, che accusa apertamente i carabinieri di avere tenuto nascosto particolari cruciali nella settimana decisiva delle ricerche, tra l'1 e l'8 aprile. D'altronde già nel 2015, quando con i suoi complici Patrik Ruszo e Ivan Pajdek terrorizzava la zona, Igor era stato fermato e rilasciato perché nessuno aveva comunicato ai carabinieri la targa della sua auto, segnalata dal vicino di casa di una delle vittime. La targa di quell'auto riconduceva a un fiancheggiatore dei Beizako, i nomadi ferraresi che hanno a lungo ospitato Igor. I militari fermarono Igor su quell'auto, un'Alfa 156, insieme a Pajdek e lo lasciarono andare. Per tacere dell'episodio più grottesco di tutti, i carabinieri che nel pieno della caccia lo intercettano a Consandolo, la sera dell'8 aprile, a bordo di un Fiorino: loro sono in tre, armati di mitra, lui è da solo. Ma dal comando arriva l'ordine di non sparare e attendere rinforzi. Ovviamente Igor saluta e sparisce nuovamente nel nulla.
Lo si poteva fermare prima, insomma, se non si fosse perso tempo a litigare e non si fossero inanellati errori su errori: e sarebbe ancora vivo Pierluigi Tartari, il pensionato torturato e lasciato morire ad Aguscello, sarebbe viva la guardia giurata Salvatore Chianese, vivo il
barista Davide Fabbri, viva anche la guardia provinciale Valerio Verri, vivi i due della Guardia Civil e il contadino ucciso da Igor nell'ultima tappa della sua fuga. Sette morti che ora pesano come magli sugli errori commessi.
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