«Locale sottoposto a sequestro penale» recita il cartello sulla casa e davanti al ristorante «Il Carroccio», circondato dalle strisce di plastica bianca e rossa che bastano a far sussultare Brembo di Dalmine e, come in centri concentrici che si allargano veloci, Bergamo, la capitale della Lega dura e pura prima maniera, e il partito tutto. Colpi sferrati alla testa di Franco Colleoni con ferocia, con un oggetto contundente, non possono lasciare indifferenti nessuno, meno che mai coloro con i quali Colleoni ha condiviso la vita politica. Anche perché carabinieri e procura fanno sapere che non viene esclusa alcuna ipotesi, dal furto alla rapina fallita alla pista personale. I leghisti a lui più vicini temono che possa essere il gesto disperato di qualcuno a lui legato per lavoro e che ha perso la testa per la crisi.
Già, perché Franco Colleoni, 68 anni, non era una persona qualsiasi, anche se aveva chiuso da tempo con la politica attiva, concentrando le proprie energie nell'avventura del ristorante insieme con la moglie. Colleoni è stato un politico noto e impegnato nella Lega, almeno fino al 2004, e nonostante davanti ai cambiamenti del suo partito abbia poi dichiarato di voler votare i 5stelle, la prima passione politica l'aveva conservata non solo nel cuore ma anche nel nome della sua vita da ristoratore: si chiama «Il Carroccio» il locale che ha aperto nella cascina intorno al cui cortile si trova la sua casa, dove vivono ancora i simboli lúmbard. Un ristorante frequentato anche dal segretario della Lega, Matteo Salvini: «Lo ricordo con stima e affetto, con lui ho condiviso anni di battaglie, di sconfitte e di vittorie. Ricordo i pranzi e le cene nel suo ristorante di Dalmine. Una preghiera per lui, condoglianze ai suoi cari».
Segretario provinciale della Lega dal 1999 al 2004, e prima, tra il 1995 e il 1997, assessore nella giunta provinciale di Giovanni Cappelluzzo, era uno dei leghisti «duri e puri» che consideravano anche il fondatore, Umberto Bossi, troppo integrato nel sistema. Dopo inchieste e scandali, aveva preso una sbandata per Beppe Grillo, come non pochi leghisti vecchio stampo in cerca di nuovo autore, e nel 2013 si era confessato con il Corriere di Bergamo per aver abbandonato Alberto da Giussano per buttarsi tra le braccia del comico della Lanterna. «Dice molte cose che mi indussero a entrare nella Lega nel '90: etica, rigore, niente interessi». Ancora: «Sono stato organico ad un movimento, ho conosciuto molti fatti, alcuni gravi ma che non posso dimostrare.
Ho voglia di voltare pagina». Diceva di non sentirsi tradito dagli ideali ma dagli uomini: «Io negli ideali della Lega credo ancora. A casa mia sono appesi ancora i manifesti delle prime battaglie». Ora che è morto, non è facile trovare un perché.
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