«È stato impegnato tutto il giorno al Mise, una riunione dopo l'altra», dicono i collaboratori di Luigi Di Maio. Un po' poco per giustificare l'assenza del leader del M5s al vertice su uno dei nodi più delicati per il governo, il caso Venezuela. E mentre c'è sul tavolo l'analisi costi-benefici sulla Tav che non coincide con i conti della Lega, le tensioni con la Francia e la linea su Bankitalia. Tutti punti che dividono gli alleati gialloverdi.
Il vicepremier pentastellato si rifugia in un silenzio che sa di incertezza e imbarazzo, all'indomani del flop del Movimento alle Regionali in Abruzzo, in cui vince un centrodestra con la Lega che fa la parte del leone mangiando elettori grillini. Di Maio evita il faccia a faccia con Matteo Salvini, il suo alter ego nel governo, ormai trasformatosi nell'avversario più temibile. Con lui sembra in disaccordo su quasi tutto, in particolare sulla Tav, irrinunciabile per la Lega, uno spreco per il M5s, mentre le opposizioni da Fi al Pd denunciano un dossier manipolato.
All'incontro a Palazzo Chigi, già rinviato la sera prima mentre arrivava l'analisi sull'Alta velocità, il ministro del Lavoro delega il collega per i Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro, peraltro già previsto. Il premier Giuseppe Conte, Salvini, il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, i sottosegretari Manlio Di Stefano e Giancarlo Giorgetti si riuniscono per meno di un'ora, ne esce la risoluzione sul Venezuela, ma il chiarimento vero slitta ancora. Nel mondo pentastellato cresce il timore di venire schiacciati dal Carroccio. L'alleato «scomodo» condiziona pesantemente il governo, spingendo il M5s su posizioni contraddittorie con la sua linea. Anche su Bankitalia, dopo il passo indietro sul veto per i dirigenti che sembrava comune, il Blog delle Stelle torna alla carica e sostiene che «cambiare i vertici, azzerarli se necessario, serve anche a mandare un messaggio ai risparmiatori traditi».
Di Maio oscilla, cerca la quadra, ci ripensa, ha sul collo il fiato dei vari Di Battista e Fico e le pressioni dei suoi sono forti perché si prospetta una replica a catena del deludente voto abruzzese. C'è lo scarso radicamento sul territorio, ma anche il mancato effetto del reddito di cittadinanza e una perdita di credibilità confermata dai sondaggi. Attenzione, allora, perché la verifica è continua: il 24 febbraio in Sardegna, con un candidato governatore debole come Francesco Desogus, certo non si replicherà il 42% delle Politiche, forse nemmeno la metà e già le suppletive di gennaio l'hanno detto. Mentre la Lega, affrontando la protesta dei pastori sardi, può portare a casa una vittoria. Il mese dopo ci sarà il voto in Basilicata, poi il 26 maggio sia in Piemonte sia alle Europee. Proprio in primavera, la catastrofe potrebbe essere completa.
La mancanza di alleanze, a livello locale come a livello europeo, tanto sbandierata come simbolo di «purezza» e ripudio delle «ammucchiate», si rivela il vero tallone d'Achille del M5s. Il misero 20% rimediato in Abruzzo riapre il dibattito interno sulle liste civiche e la prospettiva di arrivare sbandati al voto alle Europee, con al fianco giusto giusto qualche gilet giallo, mette paura.
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