Coronavirus

Quel Palazzo distratto e distante dal dramma

Seduto con l'immancabile sigaro su una delle panchine che arredano il cortile di Montecitorio, Raffaele Volpi presidente del Copasir (comitato di controllo dei Servizi Segreti), parla di quel che manca all'attuale classe dirigente.

Quel Palazzo distratto e distante dal dramma

Seduto con l'immancabile sigaro su una delle panchine che arredano il cortile di Montecitorio, Raffaele Volpi, leghista della vecchia guardia soprannominato l'ammiraglio, ora presidente di quell'organismo delicato che è il Copasir (comitato di controllo dei Servizi Segreti), parla di quel che manca all'attuale classe dirigente. Dentro Giuseppe Conte sta illustrando, senza infamia e senza lode, l'ennesimo Dpcm contro il Covid, e a sentire le parole di Volpi la mente non può non andare a lui. «Un politico spiega può decidere in base alla popolarità, o in base alla responsabilità. Nel primo caso si dimostra un politicante, nel secondo uno statista. Conte si è paragonato a Churchill, senza però seguirne l'esempio: quel grande con le sue scelte, magari impopolari, vinse la guerra, ma subito dopo perse le elezioni. Se sei un politico devi farti innanzitutto carico dell'interesse nazionale». Poco più in là il capo dei deputati leghisti, Riccardo Molinari, anche lui con l'immancabile sigaro alla Clint Eastwood in bocca, si lascia andare a un'altra riflessione che sorprende sulla bocca di un leghista nell'epoca di Salvini: «Manca il pathos. Non c'è la consapevolezza del pericolo. Se ci fosse quella, l'unità ne sarebbe una conseguenza. Ed è una carenza di tutti. L'altro giorno la Meloni avrebbe voluto che facessimo le barricate in aula, ma per cosa?! La gente in questa drammatica situazione vuole risposte e se non le diamo non fa nessuna differenza tra loro e noi, tra la maggioranza e l'opposizione».
L'assenza di pathos: la chiave di lettura è interessante e probabilmente vera. Mentre ogni giorno il virus uccide sempre più persone (ieri 217 morti) e batte quotidianamente il record dei contagi martedì 22mila, mercoledì 25mila, ieri ha sfiorato i 27mila dimostrando una «geometrica potenza», per usare un'espressione applicata alle Br durante gli anni di piombo; mentre gli ospedali traboccano e le terapie intensive si riempiono, i potenziali infettati sono relegati per settimane nelle case in attesa di tampone, ad Avezzano muore una paziente di Covid in fila al pronto soccorso e a Napoli due persone perché non sono arrivate in tempo le bombole d'ossigeno; mentre tutti danno per scontato in una settimana, quando si supereranno i trentamila contagi al giorno, un altro lockdown; mentre la Francia si stringe per respingere oltre al Covid anche l'attacco dello jihadismo e una Spagna spazzata dall'epidemia e dalla crisi economica tenta la carta del governissimo; ebbene, mentre avviene tutto questo, si consuma in Parlamento l'ennesimo dibattito parlamentare su un Dpcm, si celebra l'ennesimo rito e si inciampa su polemiche senza sbocco. Il punto è che non c'è contezza del dramma nazionale.
E il premier, al di là delle sue colpe, diventa il simbolo dell'assenza di pathos nel modo con cui il Palazzo si rapporta alla tragedia del Paese. Nelle sue comunicazioni alla Camera e al Senato il piano degli scienziati sulla seconda ondata diventa la Bibbia, mentre le parole del Comitato Scientifico sono quelle di Dio. Manca del tutto la politica. Solo una leggera autocritica legata, comunque, agli errori di tutti, senza riconoscere che magari il governo avrebbe dovuto mettere in atto i consigli di quegli stessi scienziati, quelli del Cts, anche quando a maggio chiedevano di prepararsi in altra maniera alla seconda ondata dell'epidemia nei settori della scuola e dei trasporti: nei verbali del comitato scientifico si legge, ad esempio, che era stato sconsigliato al ministro della Pubblica istruzione di mandare gli studenti a scuola tutti nello stesso orario, portando l'esempio di un istituto di Gerusalemme di 1.200 alunni che in due settimane aveva contato 300 contagiati; come pure il Cts aveva implorato il ministero dei Trasporti di ridurre la capienza degli autobus al 50%, beccandosi a risposta piccata «questo limite produrrebbe un incremento di 500mila automobili in circolazione con un aumento delle polveri sottili tale da mettere a repentaglio la vita dei cittadini». Insomma, il governo ascolta il consiglio degli scienziati solo quando fanno comodo. All'ultimo il premier fa un appello «a stare uniti», talmente partecipato e solenne, che per un disguido nel circuito televisivo interno del Senato è interrotto dall'apparizione in video di un tecnico che armeggia in un'aula di commissione. «Manca totalmente di pathos sbotta Pierferdinando Casini, che è entrato in politica all'indomani dell'assassinio di Moro ed è abituato a ben altre atmosfere e il Pd si sta smarcando da lui». «Conte parla - lo fulmina il piddino Matteo Orfini - come un prefetto non come un premier».
Non basta. Nell'aula il socialista Riccardo Nencini ricorda al presidente del consiglio «lo spirito repubblicano» per unire il Paese nell'emergenza, gli rammenta che il momento è talmente grave che Mattarella ha convocato il Consiglio supremo di difesa. A paragone di Conte sembra Cavour. Emma Bonino implora il premier di fare autocritica, di richiamare pure i grillini alla responsabilità quando rifiutano il Mes. Poi, nel terzo dibattito parlamentare a cui partecipa Conte in 12 ore, il rito ha il sopravvento sul pathos. La Boschi critica le scelte del governo, ma conferma la fiducia. La Meloni elenca tutte le castronerie fatte dall'esecutivo abusando nel sarcasmo. Salvini chiede al premier per la decima volta in dieci dibattiti parlamentari di «chiedere scusa» e la testa del commissario Arcuri per i suoi errori. Ovviamente, invano.
Alla fine il più sincero è il presidente dei senatori del Pd, Andrea Marcucci, dai banchi della maggioranza chiede al premier «di valutare se tutti i suoi ministri sono adeguati all'emergenza». Un'uscita che il capigruppo leghista, Massimiliano Romeo, interpreta così: «I grillini mettono in croce la ministra dei trasporti, De Micheli, il Pd mette sul banco degli imputati, la ministra dell'Istruzione, Azzolina». Una sortita troppo diretta, troppo vera da spaventare Nicola Zingaretti, che due ore dopo si precipita a confermare l'appoggio al governo. E pensare che qualche giorno fa il leader del Pd si vantava con l'ex governatore del Lazio, Francesco Storace, di aver «battuto i pugni sul tavolo per convincere Conte». La prossima volta Zingaretti sarà talmente credibile quando farà la voce grossa, che i suoi interlocutori gli risponderanno come i ragazzini sul Tevere all'Alberto Sordi-Nando Moriconi di Un americano a Roma: «A Nicò facce Tarzan!».
Ma in fondo con quella sua uscita Marcucci, volontariamente o meno, mette il dito nella piaga: l'emergenza è anche un problema di uomini, di responsabilità, di errori, perché nei momenti drammatici premier, ministri, commissari sono chiamati a decidere da soli e se non sono all'altezza, se non sono competenti e sbagliano, sono guai. E si torna a parlare di statisti, interesse nazionale e spirito repubblicano: solo su queste espressioni, che evocano da sole il pathos, può fondarsi l'unità del Paese e delle sue istituzioni. «Qui rischiamo scuote la testa in un angolo di Montecitorio il renziano, Michele Anzaldi di andare sottoterra. Di non avere neppure i soldi per le menate dei grillini sul Mes.

Abbiamo una settimana per cambiare registro, partendo dal presupposto che, dopo tanti errori, alla gente la testa di un colpevole la devi dare».

Commenti