«Votare a settembre o a marzo, cosa cambia per i cittadini? Nulla», dice Matteo Renzi.
Ai cittadini forse nulla, a lui invece parecchio: il leader Pd punta tutte le sue carte sulla prima data, quella autunnale, ben sapendo che le resistenze saranno molte e trasversali in Parlamento e fuori.
Tanto che lascia cadere una notazione che ha un po' il sapore di un avviso: se la legislatura prosegue e si va al voto la prossima primavera, tanto meglio: «Se votiamo dopo possiamo finalmente far partire la commissione d'inchiesta sulle banche, così vederemo una volta per tutte le reali responsabilità nel mondo del credito italiano». Un avviso che può essere diretto al governatore Ignazio Visco, cui Renzi ha contestato il modo in cui Bankitalia ha esercitato la vigilanza sulle banche finite nella bufera. Ma forse anche a Mattarella, che non ha nascosto di temere i potenziali effetti destabilizzanti di un'inchiesta parlamentare sul sistema bancario. E che è l'ultimo arbitro in materia di scioglimento delle Camere.
Del resto la paginata di intervista che il segretario Pd ha concesso ieri a Emilia Patta del Sole 24 Ore ha già un tono da campagna elettorale, mirato a quel ceto produttivo del Nord e in particolare del Nordest che legge il quotidiano di Confindustria, e al quale Renzi promette il no ai «diktat della Ue» sul salvataggio delle banche venete» nonché una nuova battaglia anti-austerity, a partire dalla prossima legge di bilancio che deve «bloccare ad ogni costo l'aumento Iva e continuare a buttare giù la pressione fiscale, che è l'unico modo per crescere».
E un segnale che le elezioni di autunno e il passaggio di testimone nel governo siano dati per assai probabili viene anche dalle parole che il ministro Pier Carlo Padoan ha pronunciato ieri al Festival dell'Economia di Trento: «Sento che il compito del ministro, data questa condizione politica, è lasciare un Paese con i conti pubblici in sicurezza. Chiunque farà la legge di Bilancio avrà spazi di flessibilità importanti». Dietro quel «chiunque» c'è un duplice messaggio: che la prossima legge di Bilancio la farà probabilmente un altro governo, e che Padoan non ne farà parte.
Al premier Paolo Gentiloni, Renzi ribadisce il proprio «sostegno pieno» per un governo «in continuità col precedente», e spiega: «Metterlo in discussione mi è politicamente - oltre che umanamente - impossibile». Ed è chiaro che il leader Pd non vuole essere colui che stacca ufficialmente la spina al terzo governo del suo partito in questa legislatura (dopo Letta e, suo malgrado, sé medesimo): se si arriva allo scioglimento, dopo l'approvazione della legge elettorale, sarà d'intesa col premier e «senza strappi», come ripete ai suoi. E quindi sulla base di un calendario concordato con Palazzo Chigi e Quirinale, che preveda legge elettorale a vasta maggioranza, dimissioni del governo senza passare per voti di sfiducia e messa in sicurezza della prossima legge Finanziaria.
Quanto alla legge «tedesca», Renzi ammette che «non è la mia preferita», ma è anche l'unica su cui è possibile «un accordo ampio».
A chi, da Prodi a Veltroni a Letta, lamenta il «tradimento» del maggioritario ricorda che «l'unico modo» per averlo era «far passare il referendum del 4 dicembre», su cui certo né Prodi né Letta si sono sprecati. Ora è tardi per piangere sul latte versato: «A chi nel Pd vorrebbe, come me, un altro sistema chiedo: con quali voti?».
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