Cronache

Il Papa contro la parolaccia che (purtroppo) non indigna

Anche il Papa condanna l'uso del turpiloquio, che ormai copre la poca voglia di dialogare e argomentare

Il Papa contro la parolaccia che (purtroppo) non indigna

«Stiamo diventando una civiltà delle cattive maniere e delle cattive parole», come dice Papa Francesco? Direi di no, quella civiltà è già diventata così.

Una parolaccia può sempre scappare: inutile fare i moralisti. Ma oggi non ci si vergogna di averla pronunciata. In una parolaccia c'è la sintesi istintiva di una reazione mentale contro qualcuno o qualcosa. Non si argomenta, non si esprimono le proprie ragioni, si rifiuta il dialogo ed ecco, fulminea, la parolaccia proferita come se si scagliasse una pietra contro l'avversario. È la testimonianza di una incapacità di ragionare, di dialogare, vuoi perché la rabbia ha annebbiato il cervello, vuoi perché il proprio linguaggio è povero, senza cultura. Nel primo caso la persona educata si scusa, nel secondo non si rende neppure conto di quanto sia volgare, perché, semplicemente, è ignorante. C'è un modo di dire (forse politicamente scorretto, ma non importa) molto eloquente: «Parla come uno scaricatore di porto»; il che significa che il turpiloquio è figlio della volgarità e dell'ignoranza che appartengono, di necessità, a realtà sociali basse e misere.

Il fatto interessante è che nella previsione di Papa Francesco stiamo diventando tutti scaricatori di porto (è una metafora) quanto a linguaggio. Ma ha anche precisato: «Come se fosse un segno di emancipazione». Papa Francesco è ottimista: andrebbe tolto il «come se» e il congiuntivo.

Il turpiloquio è un segno di emancipazione a rovescio, una specie di Rivoluzione francese del linguaggio e dei modi di comportarsi, che si ribellano alla tradizione alta, aristocratica. Oggi, se uno lascia il posto a sedere a un anziano, è ridicolo; se un signore s'affretta ad aprire la porta della macchina per far scendere una signora, è visto con sospetto; se si lascia il passo a una donna, se si pretende il «lei» da un più giovane, se si osa fare il baciamano... si è considerati dei babbei.

La parolaccia è la ciliegina sulla torta delle cattive maniere, e nella nostra contemporaneità ha una sua storia. Qualcuno ricorderà quando Cesare Zavattini, tra lo stupore di tutti, pronunciò la parola «cazzo» alla radio. Era il 1976, e quella parola ne ha fatta di strada. Ormai è diventata un intercalare che non impressiona più nessuno: la via dell'emancipazione del linguaggio verso il basso, verso la volgarità è stata lunga ma ha dato, alla fine, i suoi risultati. Il turpiloquio è trasversale, amato dai conduttori televisivi che, nello scontro tra i propri ospiti infarcito di parolacce, vedono alzare lo share del programma. È amato dal politico come segno distintivo rispetto al collega della Prima Repubblica, che amava parlare senza farsi capire: dal gergo politichese, incomprensibile, al gergo volgare iperrealista, c'è chi vede in questo passaggio il segno della liberazione della comunicazione politica.

Se si parla così in televisione e in Parlamento, perché non potrebbe parlare così la gente comune? E, infatti, parla così, senza reticenze, ritenendo davvero che questo sia un modo disinibito, diretto, autentico di comunicare. Neppure ci si accorge di quanto il linguaggio s'impoverisca, perché non si ha più bisogno di un linguaggio raffinato. Negli sms, nelle mail, in Facebook si predilige una comunicazione sintetica e immediata: ciò comporta un inevitabile imbruttimento della lingua che, se non sconfina necessariamente nel turpiloquio, tuttavia nessuno si stupisce se esso viene usato.

Un bel linguaggio è figlio dell'educazione estetica che insegna a comprendere dove ci sia qualità, originalità, bellezza: nelle cose come nella comunicazione. Una civiltà delle cattive maniere e delle cattive parole non è il risultato dell'emancipazione di una società, semmai è il luogo in cui si esalta il cattivo gusto.

Se, poi, questo cattivo gusto - con le sue conseguenze sul linguaggio e sul comportamento - non viene censurato e appare la cosa più normale che possa esserci, dipende dal fatto che, innanzitutto, non si sa cosa sia l'educazione estetica e, in secondo luogo, qualora si sapesse cosa sia, si teme di fare la figura dei reazionari, codini, conservatori ostili allo spirito del tempo che si compiace del cattivo gusto nel modo di esprimersi e di fare.

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