C entottantaquattro film: e dentro c'è tutto Fantozzi, tutto Benigni, tutto Vanzina, tutto Troisi, quasi tutto Verdone, buona parte di Castellano e Pipolo. In sintesi: per oltre vent'anni il cinema italiano è stato lui, e lui è stato il cinema. Ma ora che la parabola di Vittorio Cecchi Gori arriva al suo punto più basso, con le guardie carcerarie pronte a traslocarlo dall'ospedale a Rebibbia, sarebbe ingeneroso riassumere il suo tragitto nella vita in una arida sequenza di titoli, tra capolavori e schifezze, blockbuster e tonfi. Perché lui, Vittorione, lì dentro c'era praticamente nato, sbarcato a Roma in braghe corte a seguire il padre Mario che andava a lavorare per De Laurentis. E come si fa a crescere tra set e divi e pataccari senza diventare tu stesso alla fine un po' divo e un po' cialtrone, nel grande set fasullo della vita?
Se l'ascesa di suo padre Mario aveva coinciso con l'epoca più fulgida del cinema italiano, quella che dopo le angosce neorealiste apriva le porte al genio dei Risi e dei Monicelli, il lancio in orbita del rampollo Vittorio avviene quando l'edonismo reaganiano inizia a dettare legge, sdoganando tette e scoregge che sbancano i botteghini.
E della stagione goduriosa dei cinepanettoni Cecchi Gori junior diventa alla fine un personaggio lui stesso, con la sua umanità travolgente e i suoi difetti. Un protagonista astuto e accorto, perché capisce in fretta che nella Roma fin de siècle senza gli amici giusti in politica, in divisa e con la toga non si va avanti. Ma imprenditore vero, uno dei pochi figli di papà che nella storia dell'imprenditoria italiana non abbiano avuto come primo, indefettibile obiettivo dilapidare il lavoro del padre.
«Sono rimasto figlio, sono rimasto figlio»: così ripeteva la mattina del luglio scorso in cui aveva aperto ai giornalisti la grande casa ai Parioli, la casa di papà Mario e mamma Valeria, dove era tornato a vivere lasciando (malvolentieri) lo sfarzo inverecondo di Palazzo Borghese. E raccontava di incontrare nei corridoi il padre morto da tempo, ma ancora lì, presente, a battagliare con Dino Risi per salvare la vita di Trintignant nel finale del Sorpasso. Sapeva, quel giorno ai Parioli, di essere un sopravvissuto, un condannato in licenza. Sopravvissuto all'ischemia che due anni prima lo aveva quasi mandato al Creatore; sopravvissuto alla valanga giudiziaria che, come spesso accade in questo paese, trasforma in catastrofe gli inciampi degli invidiati.
E invidiato, lui, lo era stato: molto e a lungo. Per il suo successo, per i suoi soldi, per le sue donne - prima la Rusic, poi la Marini - che gli avevano reso superfluo razzolare tra le comparse come un Weinstein qualunque; e persino per la sua parabola amara alla guida della Fiorentina, la squadra del cuore che pure aveva ereditato dal padre, e di cui fu presidente prima amato, poi contestato e odiato, e infine amaramente rimpianto.
L'ultima comparsa, prima dell'arresto, l'ha fatta un mese fa, sottoponendosi eroicamente alla macchina della verità per mettere fine alla rissa in tv tra la Rusic e la Marini. «Sono lusingato dal fatto che due donne così belle e così di carattere mi abbiano voluto bene e a giudicare da come litigano oggi, forse, me ne vogliono ancora», disse: e si fece una bella risata.
Sapeva, probabilmente, che le manette stavano per arrivare. Ma nei cinepanettoni non si piange.
LF
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