Parla come mangi

Si parla tanto di cibo ma usiamo sempre le stesse parole. Ecco come "condire" i discorsi

Parla come mangi

S iamo tutti buongustai, il cibo è centrale nelle nostre vite e diventa spesso il primo argomento di conversazione in tanti contesti. I nostri orizzonti culinari si sono allargati a tutto il globo, ma quali parole usiamo per descrivere la pletora di nuovi gusti e sensazioni? Una manciata, le solite: buono, delizioso, gustoso, dolce o salato, e poco oltre.

Sainsbury's, catena di supermercati britannica (e i supermercati, c'è poco da fare gli snob, partecipano all'onda di questo nuovo approccio al cibo), ha stilato un dizionarietto di 101 parole, utili «per descrivere ogni boccone» (Taste Dictionary, 101 Ways to Describe each Mouthful). Si va dal decadente, perfetto per torte al cioccolato, gelato, caramello salato e salsa bernese; al medicinale, che si confà ad anice stellato, miele e limone, rosmarino e dragoncello. L'assunto è che mentre l'esperienza enogastronomica avanza, la lingua arranca. Il detto «parla come mangi» insomma si è ribaltato: se una volta era un invito a parlare in modo semplice, comprensibile a tutti, oggi mangiamo meglio di come parliamo, e ci mancano le parole per descrivere un'esperienza culinaria ormai più raffinata del nostro povero eloquio.

Ma questo non ci ferma. Dopo avere scalato monti impervi per procurarci un Castelmagno di malga, fatto follìe per mettere le mani sul pomodoro Fiaschetto di Torre Guaceto, e sfidato le nebbie per cenare al ristorante stellato nella bassa Padana, continuiamo a parlare di cibo. Sedici ore a settimana secondo una ricerca inglese, forse più ancora da noi, che di cucina (e della chiacchiera) siamo i maestri.

«È vero conferma Cristina Bowerman, una laurea in Giurisprudenza e poi la passione per la cucina perseguita negli Stati Uniti, oggi chef stellata del Glass Hosteria di Roma stiamo assistendo a un progressivo impoverimento del linguaggio, che non riguarda solo il cibo. Anche la soglia di attenzione si è abbassata, e cerchiamo di usare sempre meno parole per esprimere un concetto. In questo ci stiamo uniformando all'inglese, che è lingua più compressa e meno ricca dell'italiano. Inoltre, tendiamo a parlare come scriviamo sui social». E non è, pare, una buona notizia. Quali sono i termini più abusati? «Da urlo e da sballo, ridicoli specie se in bocca a degli adulti. Perché non sostituirli con interessante, profondo, complesso? Per descrivere un piatto, i cavalli di battaglia di chi vuole darsi arie sono bilanciato ed equilibrato». Eppure, i termini italiani per descrivere il gusto non mancano. «Abbiamo un'ampia disponibilità lessicale spiega Massimo Arcangeli, linguista e docente all'Università di Cagliari -. Senza fermarsi al dolce e all'amaro, un cibo può essere ripugnante o inebriante, un profumo fetido o penetrante, un sapore soave. Quando parliamo di cibo sono coinvolti tutti i sensi, dalla vista all'olfatto, possiamo anche toccare e misurare la tattilità del cibo».

Del resto, la ricchezza della nostra tradizione culinaria ha bisogno di essere raccontata. Perché, se Sami e Inuit hanno decine di parole per descrivere la neve, noi ne abbiamo centinaia per raccontare i prodotti del territorio. «La nostra lingua è piena di geosinonimi, termini regionali che designano lo stesso alimento, come i bianchetti che diventano gianchetti in Liguria, cecinelli in Campania, grigetti in Calabria». Insomma la «base» linguistica c'è, ed è ricca e articolata; basta utilizzarla, ricordarla, approfondirla. Magari anche tornando ogni tanto a sfogliare il dizionario.

Infine ci sono i neologismi, che seguono la grande evoluzione che sta vivendo il mondo della tavola. Dai nuovi stili di consumo (l'apericena che evolve in aperipranzo e apericolazione) ai nuovi luoghi (l'hamburgheria, la camomilleria), alle ricette tradizionali che cambiano pelle (la pizza gourmet).

«Lo sforzo davvero importante sostiene Arcangeli - è nel creare un nome per ogni nuovo oggetto. Solo così la lingua evolve, altrimenti siamo destinati a essere colonizzati dall'inglese. E, se non lessicalizziamo il mondo in cui viviamo, questo ci sfugge».

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