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Il Parlamento alza la voce, il popolo rischia di perderla

Il braccio di ferro tra Westminster e governo potrebbe anche seppellire la Brexit. E la volontà degli elettori

Il Parlamento alza la voce, il popolo rischia di perderla

Voleva riprendersi la sovranità dall'Unione europea, ora Westminster se la riprende dal suo stesso governo. E forse pure dagli inglesi. Il Parlamento di Londra getta alle ortiche un anno e dieci mesi di trattative con Bruxelles e con una bocciatura senza precedenti trasforma in carta straccia l'intesa di divorzio raggiunta faticosamente dalla premier Theresa May con la Ue. È l'ennesima vittoria di un'Aula che sulla Brexit non intende piegarsi al volere dell'esecutivo. Una prova di forza e un'affermazione di potenza che svilisce mesi di negoziati e rimette al centro il potere dell'Aula e della democrazia parlamentare. Con il rischio, tuttavia, di un'uscita dura, ma anche di seppellire la volontà popolare.

Il braccio di ferro che si è consumato in queste ore a Londra tra Parlamento ed esecutivo è il culmine di uno scontro istituzionale e costituzionale che va avanti da mesi. E che potrebbe persino cancellare la Brexit. La bocciatura del piano May apre la strada al no-deal, a un'uscita netta, ma anche a nessuna Brexit - come sperano in molti e come teme Theresa May - finendo per disattendere la volontà espressa dagli inglesi nel 2016, seppur con una maggioranza risicata (52% a 48%) a favore dell'uscita dalla Ue. Per questo la premier ha insistito fino alla fine: «Fermare la Brexit sarebbe una catastrofe per la democrazia». L'interpretazione è chiara ed è la ragione per cui la leader inglese si è battuta finora: «Il governo è il servitore del popolo», perciò l'uscita dalla Ue va portata a compimento. Mancano 73 giorni all'addio fissato per il 29 marzo 2019 e senza un compromesso, senza un accordo, si rischia di buttare al vento la volontà degli elettori.

L'esecutivo è ancora convinto che la sovranità popolare prevalga su quella parlamentare in tema di referendum e Theresa May si sente investita di un compito fondamentale, proprio in nome di un principio democratico, pur non avendo lei per prima votato a favore della Brexit nel referendum del 2016. Lo aveva ribadito già un anno fa, quando l'Alta Corte, dopo l'azione legale avviata da Gina Miller stabilì che il governo non avesse diritto di invocare l'articolo 50 senza consultare prima il Parlamento. Date a Westminster quel che è di Westminster, fu la decisione dei giudici, che misero nelle mani del Parlamento una scelta capace persino di bloccare la Brexit voluta dagli elettori. Anche allora Theresa May difese il pieno diritto dell'esecutivo di invocare l'articolo 50 proprio per realizzare l'obiettivo chiaramente espresso dagli elettori. Alla fine il 13 marzo Westminster approvò la legge che diede al governo il via libera ad avviare il processo di uscita. Ma ora lo scontro si è riproposto. Come a fine dicembre, quando la House of Commons stabilì tramite un emendamento cruciale che il Parlamento dovesse avere l'ultima parola sull'accordo finale con la Ue. E la parola fine al piano May l'ha pronunciata ieri, bocciandolo.

Il rischio di questo scontro in cui il Parlamento vuole esercitare a pieno titolo i propri poteri è che alla fine Westminster tolga potere ai cittadini che hanno detto la loro nel 2016. Anche l'opzione di un secondo referendum che torna sul tavolo in nome del principio di ridare voce a un elettorato diviso potrebbe togliere voce a quegli elettori che si sono già pronunciati. Il voto bis rischia di rappresentare la nemesi della volontà popolare sulla volontà popolare. Non a caso l'ipotesi fa imbufalire i Leavers, convinti che ridare la parola agli inglesi voglia dire aspettare che gli inglesi rivedano una decisione già presa.

Con il rischio di riaprire una guerra interna fratricida che da troppi mesi ormai lacera il Regno Unito.

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