Le repliche in Aula di Giorgia Meloni hanno ormai assunto le sembianze di una serie Tv. Ogni volta che il presidente del Consiglio prende la parola in Parlamento, va in scena una nuova puntata che accende il dibattito e genera fiumi di commenti: "Non è istituzionale", "sembra un comizio", "non parla da presidente del Consiglio". Ma davvero il tono della premier è incoerente con il registro del confronto parlamentare? In realtà, le sue repliche sono solitamente proporzionate e coerenti con il tono degli attacchi. Quando le opposizioni spostano il confronto dal merito delle questioni politiche al piano personale, quando si passa da Gaza alla libertà di stampa, dalle piazze alla "democrazia in pericolo", non si capisce perché Meloni dovrebbe limitarsi a incassare. Difendersi e contrattaccare, in quel contesto, non è un eccesso ma una necessità. È la grammatica della politica parlamentare, non una deviazione da essa.
Ce lo insegna la Camera dei Comuni di Westminster culla della democrazia parlamentare dove il confronto tra governo e opposizione è spesso un duello verbale, fatto di battute taglienti, risate e cori di "Yes!" all'unisono. Nessuno scambia tutto questo per mancanza di rispetto, è anzi un segno di vitalità democratica. Le repliche di Meloni si muovono nello stesso solco, non come rottura del protocollo ma come riaffermazione di una politica che sa rispondere, emozionare e coinvolgere.
C'è poi da considerare un contesto mediatico radicalmente cambiato. Un tempo, un intervento in Aula restava confinato all'emiciclo e al massimo se ne leggeva un resoconto sui giornali. Oggi, nel sistema ibrido dei media, ogni cosa che accade in Parlamento può rimbalzare in tempo reale tra tv, siti e social. In quel momento non si parla più ai parlamentari, ma alla nazione. Chi comunica sa che la seduta è una diretta televisiva, non solo un dibattito, e che ogni frase a effetto può diventare virale.
Peraltro, le ricerche sulla comunicazione politica confermano che, nell'ecosistema digitale, l'attenzione del pubblico segue una gerarchia precisa: prima vengono cioè catturano l'attenzione e generano engagement i contenuti personali, poi quelli politici e divisivi, infine quelli istituzionali. Il pubblico si aggancia con l'emozione prima che con gli argomenti. E le persone scaldano i cuori molto più delle istituzioni. Se, quindi, l'autenticità diventa il primo capitale politico, Meloni che non risponde a tono, semplicemente, non sarebbe lei. Peraltro, in politica, l'inautenticità pesa più dell'aggressività perché quest'ultima può allontanare chi già ti detesta, ma l'inautenticità può rompere il patto di fiducia anche con chi ti ama.
A rafforzare questa dinamica c'è il suo doppio ruolo. Meloni non è solo capo del governo, è anche leader di partito. È costretta a un equilibrio continuo tra autorevolezza istituzionale e identità politica, tra tono da premier e linguaggio da militante. Le repliche in Aula diventano così uno spazio in cui le due anime convivono senza filtri né intermediari.
Infine, c'è una dimensione che sfugge a molti giudizi sommari e pregiudizialmente negativi, ossia la qualità retorica delle sue risposte, la forza del linguaggio del corpo e l'uso consapevole della voce. Meloni sa modulare ritmo e timbro, calibrare ironia e indignazione, alternare diversi registri senza mai perdere il controllo. Non è improvvisazione di "pancia", è tecnica retorica. La sua capacità di tenere la scena con voce, postura, sguardo e capacità argomentativa è un vantaggio competitivo evidente.
In definitiva, le repliche di Meloni non sono uno scivolamento di stile, ma un atto politico pieno.
Non infrangono la cornice istituzionale, semmai la allargano, restituendole vita e calore. Se il Parlamento torna a essere teatro di parola e confronto, non è un male. È la politica che fa il suo mestiere, quello di parlare al cuore prima che al cerimoniale.