«Un successo», «un grande risultato», «abbiamo avuto ragione», «il popolo di centrosinistra c'è ed è con noi», «ora bisogna allargare la coalizione». Nelle ultime 24 ore, Enrico Letta si è mostrato assai deciso a cavalcare fino in fondo le primarie di Roma e Bologna, vinte dai suoi candidati, per farne un simbolo di successo e una base di ripartenza.
Il segretario del Pd cerca di creare, intorno a due consultazioni interne andate benino, lo storytelling di una potenziale vittoria, per ridare smalto all'immagine di un partito apparso assai incartato e incerto sul da farsi da quando è nato il governo Draghi. Il primo obiettivo sono le amministrative d'autunno: un'occasione di rilancio, con l'aiuto di una congiuntura favorevole. Il centrodestra è in affanno sui candidati, i Cinque stelle sono pressoché inesistenti, e a Napoli, Milano, Bologna e - forse - persino a Roma il Pd può avere ottime chance.
Una serie di vittorie alle amministrative, oltre a rafforzare il segretario, darebbero un po' di fiato al partito in vista di un autunno che si prefigura difficile. E non è un caso che dal Nazareno partano una serie di avvertimenti a quello che, fino a poco tempo fa, veniva celebrato come alleato indispensabile e interlocutore privilegiato, ossia Giuseppe Conte e il suo (quanto suo al momento non si capisce) partito. Non c'è solo Enrico Letta che tende la mano alla ex nemica «renziana» Isabella Conti a Bologna, e che parla con il candidato dem di Torino della necessità di far «rinascere» la città dopo la disastrosa sindacatura della grillina Appendino. C'è anche la capogruppo Debora Serracchiani che lancia un segnale a Conte perché tenga a bada le sue velleità di rivincita contro Draghi: se M5s, in autunno, iniziasse manovre di sganciamento dalla maggioranza che sostiene il governo, dice a La Stampa, «sarebbe un problema e il Pd lo riterrebbe molto grave, perché in questa fase bisogna mettere gli interessi del paese davanti a quelli dei partiti».
Serracchiani dà voce ad una preoccupazione molto forte che circola nel Pd. Non tanto che i grillini aprano davvero una crisi uscendo dalla maggioranza: Conte, anche volendolo, non potrebbe permetterselo, perché il partito imploderebbe e l'ala governista guidata da Di Maio si ribellerebbe. Il pericolo è un altro: che i Cinque stelle inizino, con il semestre bianco e la sicurezza di non poter provocare elezioni anticipate, una sorda guerriglia contro il governo, ostacolando il percorso delle riforme. L'intenzione ostruzionistica è già chiara, e il terreno scelto è quello della giustizia. Lo ha annunciato a chiare lettere Patuanelli, che dopo la retrocessione da ministro dello Sviluppo economico a titolare dell'Agricoltura si è trasformato in contiano di ferro e pasdaran della resistenza alla riforma Cartabia. La bandierina scelta è quella della prescrizione («Non torneremo mai indietro»), l'intento reale è quello di ostacolare la marcia trionfale di Draghi bloccando la madre di tutte le riforme, senza la quale rischia di saltare tutto il Pnrr. E questo creerebbe un problema immenso al Pd, che a quel punto dovrebbe scegliere se seguire l'alleato Conte nella fronda o seguire l'arcinemico Matteo Salvini nel sostegno a spada tratta del governo. Ritrovandosi peraltro isolato e senza gran peso contrattuale quando si apriranno le danze per il Quirinale.
Per questo ora Letta ha fretta di ricucire un minimo di rapporti, a partire dalle amministrative, con l'ala centrista (renziani in testa). Mentre Serracchiani avverte Conte che non gli conviene rompere: «Serve una forza larga di centrosinistra per dettare l'agenda e non lasciare campo aperto al centrodestra».Ad esempio nella partita per il Colle.
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