Il Pd si spacca sull'articolo 18 Ma il premier incassa il «sì»

In commissione Lavoro i senatori democratici votano il primo ok al testo, fuori scoppia il caos. Il presidente Orfini: «Norme da correggere». Bersani: «Surreale»

N on è durata molto la fronda anti premier nel Pd. L'intenzione dei democratici doc era – e resta - fare arretrare Matteo Renzi sul tema simbolo dell'articolo 18. Nei giorni passati è cresciuto il malumore verso i piani del premier sul mercato del lavoro, l'opposizione al leader democratico si è attivata arrivando a chiamare in soccorso Massimo D'Alema, che nei giorni scorsi ha visto esponenti della minoranza interna e anche qualche renziano convertito, ora sulla via del pentimento.

Ma ieri l'offensiva si è arrestata su un appuntamento importante, cioè il voto della commissione Lavoro del Senato sul Jobs Act. Le notizie sui malumori dei senatori dem si erano rincorse tutto il giorno, ma alla prova dei fatti la delega del ministro Poletti è passata senza sorprese, nonostante contenga anche l'emendamento del governo che introduce il contratto di lavoro a tutele crescenti. Cioè un regime che non prevede la sostanza dell'articolo 18, il reintegro dei lavoratori licenziati per i quali una sentenza non riconosca la giusta causa. Hanno abbandonato l'Aula i senatori di Sel e del M5S, mentre si è astenuta Forza Italia.

Martedì il testo approda in aula e l'intenzione del governo è approvare tutto il pacchetto entro ottobre e poi passare ai decreti attuativi entro la primavera. L'idea di una buona parte del Pd resta quella di introdurre delle correzioni incassando una vittoria politica sul premier. Un obiettivo gli oppositori di Renzi lo hanno parzialmente ottenuto ed è quello di differenziare sempre di più il partito dall'azione del governo.

Ieri ha preso le distanze dal premier persino il presidente del Pd Matteo Orfini che ha chiesto correzioni al testo. «I titoli del Jobs Act sono condivisibili, lo svolgimento meno, ne discuteremo in direzione ma servono correzioni importanti al testo», ha spiegato l'ex giovane turco.

Ancora più diretto l'ex segretario Pier Luigi Bersani. «Leggo come attribuite al governo delle intenzioni ai miei occhi surreali». Bersani ieri mattina chiedeva al governo di spiegare cosa c'è nella delega perché «si parla di cose serie», ma alla fine i senatori democratici non hanno mandato i segnali al governo che l'ex leader Pd si aspettava.

Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, soddisfatto per il sì in commissione, ha detto che il testo è stato migliorato dalla delega, ma non ha chiuso al confronto quando si tratterà di applicare la delega. Esponenti renziani assicurano che nemmeno il premier ha una posizione preconcetta sul reintegro. Anzi, ha più volte sottolineato come non sia un tema centrale.

Esercizio pericoloso perché la sinistra Pd non demorde. Si è rifatto vivo Pippo Civati, sostenendo di avere una riforma alternativa pronta e subito approvabile. Persino il segretario della Fiom Maurizio Landini, considerato vicino al premier Renzi, ha detto che ora il sindacato deve mettere in campo «iniziative e proposte». Anche il segretario della Cisl Raffaele Bonanni ha criticato il governo che, sostiene il leader sindacale, sta usando l'articolo 18 come «bandierina per andare allo scontro».

Sul fronte opposto, c'è chi, come l'ex ministro del Lavoro ed esponente del Nuovo centrodestra Maurizio Sacconi considera l'approvazione della delega una «pagina storica».

Il sostegno politico, insomma, non è scontato. E a dimostrarlo ci sono le tante contropartite che il governo ha messo in campo contemporaneamente all'intenzione di incidere sullo Statuto. Ci sono nuovi ammortizzatori sociali, che però hanno un costo.

Il governo li stima in 2-3 miliardi, ma ai tempi della legge Biagi un sistema moderno di sussidi era considerato molto più costoso. Poi il salario minimo anche per i Co.co.co. Rigidità che rischia di vanificare gli effetti positivi di un'eventuale cancellazione dell'articolo 18.

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