Si drizzano le orecchie al Nazareno, tutte rivolte verso il vicino Colle e le determinazioni ormai imminenti che a metà settimana potrebbero segnare una svolta alla crisi. Il Pd guarda a Mattarella, attraverso molti suoi antichi sodali (in primis, Franceschini e Zanda) che si tengono in stretto contatto, per capire se l'ago della bussola si stia indirizzando verso un incarico pieno a Salvini o esplorativo per una figura istituzionale. In entrambi i casi, per un partito dilaniato che ormai gioca di sponda, ovvero relegato in tribuna, potrebbe significare l'inizio di una nuova stagione. Aspettando che il «nemico» Salvini fallisca. O rientrando dalla finestra con un governo «di tutti».
Ma la fretta, nonché l'aspettativa spasmodica, non sono buone consigliere, e l'instancabile Lorenzo Guerini spiegava ieri come il Pd sia «disponibile a realizzare un incontro con chi sarà eventualmente incaricato da Mattarella, per confrontarsi sui punti programmatici». Dichiarazione che sembrava aprire spiragli ulteriori e perciò prontamente precisata qualche ora dopo dallo stesso Guerini che negava la disponibilità «a discutere con le forze che hanno vinto le elezioni». Dunque: nyet a Salvini, nyet a Di Maio, Fico o chi per essi. Lo ribadiva in maniera ancor più netta Matteo Orfini, assurto ormai a portavoce ufficiale di un ex segretario che dirige il partito, appunto, per interposti dirigenti. «Nessuna possibilità di collaborare con M5s e Lega», specificava Orfini. Facendo così trapelare una sorta di pressione nei confronti di Mattarella, visto il precipitare della situazione internazionale, affinché opti per una figura super partes e di sicuro non ascrivibile a Lega o Cinque stelle. Ulteriori conferme della linea arrivavano quindi da Ettore Rosato che rimarcava l'«alternatività» del Pd a entrambe le forze vincitrici e le sfidava a smetterla «con le schermaglie» per far sapere finalmente agli italiani «se sono in grado di fare un governo assieme».
Di fronte a questo fuoco di fila dei renziani, all'indomani del rinvio dell'assemblea che avrebbe potuto incoronarlo ufficialmente traghettatore con pieni poteri verso congresso e primarie, ne usciva ulteriormente sminuita la caratura di Maurizio Martina. Il «reggente» già provato dall'incontro burrascoso dell'altro giorno con Renzi, ieri confermava la sua intenzione di candidarsi alla segreteria, ma sempre all'insegna di «tanta sana collegialità» e dunque refrattario a «conte e divisioni». È stato questo il refrain scelto per mascherare lo smacco subito: Renzi non si fida più tanto e, prima di cedere leve del comando, vuole capire che tipo di situazione si andrà a configurare: se il governo giallo-verde non dovesse neppure sorgere, con la crisi siriana che preoccupa fortemente, cambierebbero radicalmente strategie e protagonisti. L'ex premier perciò freme, mentre a Martina non resta che appellarsi al partito perché «si sforzi di tenere i nervi saldi».
Unità interna e serenità, va cercando il segretario travicello, che butta la palla nel campo avverso prendendosela pure lui con lo «stallo dei vincitori, l'inaccettabile balletto di personalismi, l'incapacità evidente di fronte a uno scenario che indica come il tempo delle ambiguità sia finito». Ma forse sarà così anche per lui, se il gioco si farà molto (troppo) duro.
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