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Pechino, colpo alle aziende. Così muore il libero mercato

Il regime affossa quattro colossi di hi-tech e finanza: erano sbarcati a Wall Street. Il nodo dei dati sensibili

Pechino, colpo alle aziende. Così muore il libero mercato

Puoi arricchirti, ma non eludere il controllo dello Stato. È la grande regola, non scritta, del capitalismo alla cinese. O meglio del comunismo travestito da libero mercato. L'aveva già fatto capire la parabola di Jack Ma, il Paperone cinese, padre di Alì Baba, fatto sparire e costretto a rinunciare ad ogni attività per aver criticato i controlli delle autorità. E soprattutto, per essersi illuso di poterli dribblare in virtù del proprio potere finanziario. Lo stesso sta ora capitando a Didì Chuxing, l'equivalente di Uber sul mercato cinese. Un colosso da 5,5 miliardi di dollari, quotato mercoledì scorso alla borsa di New York, ma affossato in pochi minuti dopo la rimozione, ieri, della sua applicazione dalla rete per decisione dell'ente di regolamentazione di internet in Cina (Cac - Cyberspace Administration of China). Il tutto poche ore prima di un colloquio «on line» a tre tra Xi Jinping, Emmanuel Macron e Angela Merkel. Un colloquio in cui il presidente cinese ha cercato di rilanciare l'accordo sugli investimenti con l'Europa chiedendo ai leader europei di «garantire alle aziende cinesi un ambiente commerciale equo, trasparente e non discriminatorio, in conformità con i principi di mercato». Gli stessi principi appena calpestati da Pechino sanzionando Didì per «gravi violazioni nell'utilizzo delle informazioni personali».

Una motivazione usata per imbrigliare anche Houchebang, nota in Cina come l'Uber per il noleggio dei camion, Boss Haiping, una piattaforma per il reclutamento di personale e Yunmanman un'altra azienda quotata nel settore tecnologico. Quattro imprese che oltre ad aver tentato di spostarsi sulla piazza di Wall Street rifiutavano di mettere a disposizione dello Stato i dati dei loro clienti. Due elementi assolutamente inconciliabili con le regole del mercato a «libertà condizionata» su cui si muove il capitalismo cinese. Un mercato dove nessuno può sottrarre al controllo dell'autorità centrale attività e dati contenuti nei propri server. Pechino sta infatti intensificando la pressione su tutte le aziende digitalizzate, comprese quelle straniere, per ottenere il controllo delle loro centrali dati. Nella logica dirigista e comunista quei dati sono, infatti, un bene nazionale da sfruttare o limitare in base alle esigenze dello Stato. Esigenze che includono la gestione dei rischi finanziari, il monitoraggio delle epidemie, il sostegno alle priorità economiche statali e la sorveglianza di criminali e oppositori politici. E altrettanto pericoloso e illusorio risulta il tentativo di spostare in borsa capitali e assetti azionari.

Un errore simile era stato commesso anche da Jack Ma. Lo scorso ottobre, prima di venir fatto «sparire», riapparire e annunciare il proprio «volontario» ritiro l'uomo più ricco di Cina aveva non solo criticato i controlli statali, ma anche cercato di quotare a Shangai e Hong Kong una compagnia di prestiti online denominata Ant. La mossa aveva innescato una previsione di finanziamenti superiore ai 3000 miliardi di dollari a fronte di una quotazione iniziale da 34 miliardi. Un balzo troppo grande per i gusti di un' autorità di controllo centrale preposta a ridimensionare qualsiasi entità capace di contrapporsi all'autorità e al potere del Partito. Perché, come spiegava al Wall Street Journal un alto dirigente del partito comunista, «al presidente Xi Jinping non importa se un capitano d'industria arriva in cima alla lista dei ricchi, come aveva fatto Jack Ma.

Quello che gli importa è che allinei i propri interessi a quelli dello Stato».

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