Uno schiaffo da 18,23 miliardi di yuan. O se preferite da 2,8 miliardi di dollari. O ancora 2,33 miliardi di euro. La Cina sanziona così il suo imprenditore più famoso, Jack Ma, fondatore e presidente di Alibaba, la più importante piattaforma di e-commerce del Paese, un colosso che nel 2019 ha fatturato 455,7 miliardi di yuan (58,2 miliardi di euro). La Samr, l'agenzia di Pechino che regola il mercato, ha stabilito che quella del colosso di Hangzhou è un eccesso di posizione dominante: Alibaba impedirebbe ai rivenditori di utilizzare altre piattaforme, ostacolando così la «libera circolazione delle merci».
Una motivazione quanto meno bizzarra per un regime che da una paio di decenni ha adottato un sistema economico che plasma con un po' di equilibrismo i canoni mercatocentrici del capitalismo con i teoremi del socialismo reale, ma che in questo caso si mostra ultraliberista. Un'ambiguità che si spiega con la volontà politica di affossare Ma, il quarto uomo più ricco di Cina e il ventiseiesimo del mondo secondo l'ultima edizione della tradizionale classifica dei paperoni stilata da Forbes. Il magnate dell'e-commerce è entrato in un cono d'ombra già qualche mese fa, in seguito a un discorso pronunciato a Shanghai il 24 ottobre 2020, nel quale criticò le autorità di regolamentazione cinesi, accusandole di essere nemiche dell'innovazione, intente solo a favorire i «club di anziani» e spingendosi a invocare una riforma del sistema finanziario attuale, «eredità dell'era industriale» e poco adatto alle nuove generazioni e alla tecnologia. Un manifesto che è costato caro a Ma, che dall'autunno è quasi scomparso dalle scene e da gennaio totalmente. Il suo understatement non è bastato a Pechino, che ha iniziato a perseguitarlo, dapprima sospendendo il debutto in borsa di Ant Group, la piattaforma finanziaria legata ad Alibaba ma da essa scorporata, i cui nuovi requisiti di quotazione erano stati considerati dalla borsa di Shanghai non idonei. Poi l'avvio dell'inchiesta per pratiche monopolistiche da parte di Alibaba, che era costato al colosso di Hangzhou un immediato deprezzamento delle quotazioni azionarie. Infine la supermulta comminata ieri, la più alta mai imposta in Cina, quasi tre volte più alta di quella che colpì il colosso delle telecomunicazioni Qualcomm nel 2015, pari a 975 milioni di dollari. Un salasso che la società di Ma ha apparentemente accettato con fair play, dichiarando su Weibo, il social network più seguito in Cina, di essere intenzionata a pagarla e promettendo di «operare secondo la legge con la massima diligenza». Domani però i vertici di Alibaba diranno la loro nel corso di una conference call a questo punto molto attesa.
Naturalmente vedere nella supermulta un semplice attacco personale a Ma è necessario ma non sufficiente. Pechino ha da tempo avviato una stretta nei confronti del superpotere delle grandi società che agiscono in Rete, che stanno allargando gli ambiti di interesse dall'e-commerce a settori sempre più sensibili, come la finanza e i servizi sanitari. Alibaba e le sue sorelle sono entità che rischiano di diventare incontrollabili dal regime di Pechino, che a dicembre, nella Conferenza centrale sul lavoro, aveva ribadito la sua preoccupazione e il suo fastidio per l'«espansione caotica del capitale».
Molte altre società sono state colpite, tra le quali il servizio di messaggistica WeChat e la società di giochi Tencent Holdings, con multe da 500mila yuan. Bruscolini in confronto ai diciotto miliardi chiesti a Ma. Per un grande nemico ci vuole una punizione grande.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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