Un'altra campana a morto per quel simulacro di democrazia che ancora distingue Hong Kong dalla «madrepatria» (ma sarebbe il caso di parlare di matrigna) cinese. E un altro sinistro avvertimento alla libera Taiwan, con tanto di lista nera per i propugnatori del «separatismo», presidente Tsai in testa. La parola d'ordine di Pechino è «patriottismo», che poi significa fedeltà assoluta al regime rosso fondato settantun anni fa da Mao e di cui Xi Jinping è oggi il capo assoluto e impegnato a seguire le sue orme. E nella ex colonia britannica essere «patrioti», secondo quanto dichiarato ieri dal ministro cinese per le regioni speciali Zhang Xiaoming, significa una cosa sola: impegnarsi alla lealtà alla Repubblica Popolare cinese e alla Basic Law, la legge che regola i rapporti con Pechino.
Zhang ha così ribadito la giustezza, secondo Pechino, della decisione di espellere dal Parlamento di Hong Kong quattro deputati pro democrazia. «Chi è contro la Cina o crea problemi a Hong Kong dev'essere cacciato», ha detto il ministro cinese. Chiunque ancora covasse illusioni è servito: la famosa formula «un Paese due sistemi» cui Pechino è formalmente impegnata fino al 2047 è carta straccia.
Ma non ce n'è solo per una Hong Kong sempre più avviata alla «normalizzazione» imposta dal partito comunista cinese: ce n'è anche per Taiwan, che a differenza dell'ex colonia britannica conserva la propria indipendenza di fatto e soprattutto la fiera intenzione di non cederla senza combattere. Il giornale filocinese di Hong Kong Ta Kung Pao anticipa l'intenzione di Pechino di rendere nota una lista nera di «separatisti» taiwanesi che devono aspettarsi in un prossimo futuro di essere processati da tribunali cinesi per la loro colpa antipatriottica di volere separare l'isola nazionalista dalla Repubblica popolare. In testa a questa lista, che potrebbe essere pubblicata dopo l'insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca il prossimo 20 gennaio, ci sarà la presidente taiwanese Tsai Ing-wen.
Pechino aveva pronta la lista da due anni, ma progetta di renderla nota alla fine della presidenza di Donald Trump e dopo che il suo segretario di Stato Mike Pompeo ha ribadito che Taiwan non ha mai fatto parte della Repubblica popolare: una semplice verità storica che a Pechino suona come intollerabile provocazione. La spinosa transizione tra Trump e Biden alla Casa Bianca è un momento delicatissimo per i rapporti già pessimi tra Cina e Stati Uniti. Trump intende accentuare ulteriormente la sua postura di sfida a Xi in questi ultimi due mesi della sua presidenza, in modo da lasciare al suo successore un'eredità difficile da modificare. Ma in questi anni in cui si è trovato nel mirino di un Trump molto ostile, Xi non è certo rimasto all'angolo. Ha, al contrario, giocato una sua partita non solo indurendo il suo regime all'interno e all'esterno, ma anche lavorando a nuovi scenari economici internazionali. Lo dimostra la firma nei giorni scorsi, dopo otto anni di faticosi negoziati, di un'intesa per un'area di libero scambio che legherà Pechino ad altri 14 Paesi dell'Asia-Pacifico, e tra questi giganti come il Giappone, la Corea del Sud e la stessa Australia con cui Xi è pure ai ferri cortissimi a livello politico.
È il rilancio in grande stile del mercantilismo cinese, proprio nel momento in cui gli stessi Giappone e Australia si uniscono con l'India agli Stati Uniti in un embrione di Nato asiatica per difendersi dalle mire espansionistiche di Pechino. Entro fine mese i quattro Paesi terranno le prime manovre navali comuni nella regione. Commerciare va bene, ma a guardia sempre alta.
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