Più morti che per la Sars. I dubbi sul numero di contagi

Secondo i dati delle autorità cinesi, gli infettati sono 34.500. Ma per Londra potrebbero essere oltre 300mila

Più morti che per la Sars. I dubbi sul numero di contagi

O ltre 800 morti riconosciuti ufficialmente, un dato che supera quello delle vittime dell'epidemia di Sars del 2002/2003. Le ultime cifre fornite ieri dalle autorità cinesi indicano inoltre in circa 34.500 il totale delle persone contagiate nel Paese dal nuovo coronavirus, che continua a diffondersi con una rapidità che purtroppo compensa in senso negativo il tasso relativamente basso di mortalità. Ma le polemiche sulla inverosimiglianza dei dati forniti da Pechino non si placano: modelli dell'Imperial College di Londra e dell'Università di Hong Kong, citati ieri durante una trasmissione della Rai dal professor Rino Rappuoli dell'ateneo britannico, indicano che il numero dei contagiati deve essere assai più alto di quello ufficialmente dichiarato. Già lo scorso 28 gennaio, secondo i calcoli dell'Imperial College, gli infettati dovevano essere circa 75mila, e in base ai modelli disponibili sull'indice di infettività «i casi dovrebbero raddoppiare ogni 6,4 giorni, quindi dovrebbero esserci molte più persone infettate rispetto ai dati ufficiali ha detto Rappuoli -. Oggi dovrebbero essere più di 150mila, 200mila o 300mila. E io non se queste informazioni i cinesi le abbiano».

È molto difficile percepire quale sia la reale diffusione del dubbio rispetto ai dati ufficiali presso l'opinione pubblica cinese. I media della Repubblica Popolare non nascondono più, come avevano fatto nelle prime settimane dall'inizio dell'epidemia, la gravità della situazione, ma insistono sugli aspetti positivi come le guarigioni e soprattutto sull'impegno concreto profuso dal governo e dai medici e dai soccorritori che rischiano la vita per arginare il disastro sanitario: il ministro delle Finanze ha reso noto che sono già stati spesi l'equivalente di 4 dei circa 10 miliardi di euro stanziati da Pechino per far fronte all'emergenza. In questi giorni, però, hanno cominciato a circolare sul web in Cina dei parallelismi tra la presente epidemia di coronavirus e la catastrofe nucleare di Chernobyl del 1986 nell'allora Unione Sovietica. Sul social network Douban, dove gli utenti hanno la possibilità di scambiare commenti su film, libri e musica, sono apparsi testi di questo tenore a commento della serie su Chernobyl apparsa lo scorso anno: «Wuhan e Chernobyl, quanto sono simili», o anche «Spero che i cinesi possano imparare qualcosa da quanto accadde». Il riferimento critico è alla somiglianza del tentativo iniziale delle autorità di nascondere la verità al proprio popolo e al mondo. Da un punto di vista politico, forse il più preoccupante messaggio apparso sul web cinese è però il seguente: «Le cose che possono proteggerci non sono le armi nucleari, le portaerei o gli oggetti in grado di portarci sulla Luna. Sono il libero flusso di informazioni e notizie e l'indipendenza giudiziaria». Certamente Xi Jinping, al vertice di un regime militarista e ostile alla libertà d'informazione (per non parlare dell'indipendenza dei giudici, emanazione del partito comunista al potere) non avrà gradito. L'altro fronte della battaglia che il governo cinese deve combattere è quello economico.

Dopo la diffusione di previsioni preoccupanti sulla discesa del tasso di crescita del Pil nazionale, la Banca centrale di Pechino ha annunciato che a partire da oggi verranno messi a disposizione 300 miliardi di yuan (oltre 40 miliardi di euro) di fondi speciali a sostegno delle aziende coinvolte nel contrasto all'epidemia.

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