Milano - E adesso vallo a dire ai poliziotti che per anni si sono presi calci, sputi, randellate dai bravi ragazzi del Leoncavallo. Ma, simmetricamente, vallo a dire a loro, alle migliaia di milanesi e non milanesi ultrasinistri che nel centro sociale più famoso d'Italia hanno visto per una generazione l'icona della resistenza alla morale e alla politica dominante, del rifiuto irriducibile al pateracchio con le istituzioni. Vent'anni di Leoncavallo finiscono nella malinconia piccoloborghese di un accordo che verrà firmato stamattina, o al più tardi appena tornati dalle vacanze. Una delibera urbanistica, un pezzo di carta di quelli che fanno la gioia dei geometri. E che segnano invece la fine un po' ingloriosa di un'epoca. Il business ha vinto sulla rivoluzione, i barricadieri stanno a Montecitorio, il Leoncavallo diventa egli stesso istituzione con la benedizione di Giuliano Pisapia, il sindaco che tre anni fa in quella galassia pescò un bel pezzo del suo quorum.
Il Comune di Milano diventa da oggi il padrone di casa del Leoncavallo. Operazione a costo zero, dicono a Palazzo Marino: in realtà è uno scambio di aree, il Comune regala ai Cabassi (storica famiglia milanese del mattone, eredi del leggendario sabiunat Giuseppe) una vasta e malconcia area a Rogoredo, i Cabassi gli girano la fabbrica di via Watteau che dal 1994 è la casa del «Leonka». Che la pratica sia davvero a costo zero si potrebbe forse obiettare, visto che per quanto malconcia l'area di via Zama qualche euro lo varrà. Mentre quella di via Watteau di cui Giuliano Pisapia si ritrova proprietario non vale nulla, almeno fino a quando dentro ci sarà il Leoncavallo. E il Leoncavallo non ha alcuna intenzione di andarsene.
Approdarono qui a settembre del '94, dopo un sabato pomeriggio passato a massacrare di botte in via Turati una pattuglia di celerini rimasti sventuratamente isolati. Finita la festa, andarono ad occupare la fabbrica. A dare man forte agli autonomi milanesi, i duri-più-duri di Padova e di Roma. «Fra una settimana, o due, fra un mese o fra sei mesi, noi li buttiamo fuori», tuonava il questore Marcello Carnimeo, inferocito per l'attacco a freddo ai suoi uomini. Sono passati vent'anni, sette questori e quattro sindaci. Lo sgombero non è avvenuto. E, da oggi si può starne certi, non avverrà mai. Non è una sanatoria, non è una regolarizzazione», giurano a Palazzo Marino. Ma servirebbe una immaginazione sfrenata per pensare che la giunta di Milano riesca a fare con il Leoncavallo quella che non è riuscita a fare con un altro centro sociale che occupava un'area pubblica, lo Zam di via Santa Croce, dove è dovuta intervenire la Procura per cacciare via tutti prima che lo stabile crollasse sugli squatter.
Questo rischio per il Leonka non c'è. Non crolla, anzi. Il collettivo di «puri e duri» sbarcato qui nel 1994 si è riconvertito in un accorto club di imprenditori del ballo e dello sballo, serate a tema, canna libera e mai l'ombra di uno scontrino fiscale. Il portavoce del '94, Daniele Farina, sta in parlamento sugli scanni di Sel. Dentro via Watteau, le cose filano lisce. Chi prova a spacciare droga pesante non se la cava con una denuncia, ma deve fare i conti con una security nota per i modi rapidi. I vicini si sono rassegnati. Gli altri centri sociali, quelli che a fare la rivoluzione o almeno a menare le mani non hanno rinunciato, guardano al Leonka con disprezzo esplicito, «è diventato un circolo Arci». E anche in questura hanno smesso da un pezzo di considerare a rischio quel covo di festaioli.
La ciambella di salvataggio finale che arriva oggi da Palazzo Marino consacra la metamorfosi, risarcisce i Cabassi per l'ospitalità di questi vent'anni e garantisce la pensione ai barman con i dreadlock di via Watteau. «Ma vendersi non è poi naturale, e i miti finiranno tutti male», diceva una vecchia canzone.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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