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È la pistola fumante che dà ragione alle inchieste fatte dal "Giornale"

È la pistola fumante che dà ragione alle inchieste fatte dal "Giornale"

Il tesoretto nelle polizze vita. Per la procura di Roma, a quanto pare, Gianfranco Fini non è «un coglione», come lui stesso si definì candidamente all'indomani della notizia dell'inchiesta. Il suo ruolo «progettuale e decisionale» nella ragnatela di affari e interessi che lega la compagna, Elisabetta Tulliani, il cognato Giancarlo, il re delle slot Francesco Corallo e la famigerata casa di Montecarlo è «centrale». Secondo i pm della Dda capitolina, insomma, l'allora presidente della Camera, indagato con i Tullianos per riciclaggio, non era affatto all'oscuro di tutto, come lui ha invece sempre sostenuto.

Quello che questo giornale ha scritto all'epoca, mentre Fini negava evocando complotti, si è insomma puntualmente dimostrato esatto. Anzi, la verità per la procura è anche peggiore, il ruolo di Fini in quella svendita vergognosa non sarebbe solo un favore ai parenti e a se stesso, ma sarebbe parte di un più vasto disegno, di un patto con Corallo che ha proprio nell'ex presidente della Camera il centro. Le off-shore, i soldi erogati dal re delle slot, le cautele. Tutto messo in piedi con la regia di Corallo e la consapevolezza complice di Fini. Che nel definirsi «coglione ma non corrotto» potrebbe dunque aver mancato ancora il pregio della veridicità. Anche se inquirenti e gip ricordano come, appena Corallo si sfila dal gioco con Fini e i Tullianos, emerga la «piccola delinquenza finanziaria routiniere» di operazioni sballate, passaggi di denaro tracciabili e bonifici non proprio da geni della finanza della famiglia. Magari in quella frase di Gianfry c'era almeno una mezza verità.

Fini è la sola e vera origine, scrive il gip, dei rapporti con Corallo, ed è lui che introduce nel disegno i Tulliani dopo l'avvio della relazione con Elisabetta, tanto che per il giudice è indubbio come emerga «la sua centralità progettuale e decisionale nella vicenda». È lui per la Dda l'attore protagonista nell'affaire della casa di Montecarlo, e lo è di tutti gli altri affari tra Corallo e i Tullianos, business certamente successivi al legame forgiato tra il re del gioco d'azzardo e l'ex terza carica dello Stato. Business che il giudice definisce «contiguità affaristica tra soggetti legati personalmente a un uomo politico con un ruolo estremamente significativo nella maggioranza del governo» - i Tullianos - «e un'impresa dedita a un'attività redditizia ma patogena e al riciclaggio internazionale» dei soldi sottratti all'erario. Corallo, insomma, voleva diventare socio di chi potesse «dispiegare un'elevatissima protezione politica» e, si domanda retoricamente il gip, questa protezione «potevano garantirla i Tulliani o l'onorevole Fini, capo indiscusso di un partito essenziale per la tenuta del governo?».

I Tulliani, insomma, per il gip che firma il decreto di sequestro sono solo «prestanome» che dovevano «appropriarsi» con Fini della casa lasciata in eredità ad An dalla contessa Colleoni. E proprio la «disponibilità del patrimonio del partito» conferita da Fini al patto per entrare in società con Corallo, per la Dda permette di portare a termine l'operazione Montecarlo, che frutta ai Tulliani e all'ex leader di An più soldi di quanti ne sborsi Corallo per comprare la casa a prezzo di saldo, limitando lo sforzo economico del re delle slot che, peraltro, da Fini avrebbe ottenuto anche la copertura della sua «posizione politica per garantire una tranquilla operatività ad Atlantis». Fini dunque per gli inquirenti è socio occulto e «senza imbarazzo del figlio di Gaetano Corallo», il suo coinvolgimento è «palese» almeno in tre capi d'imputazione: nell'affaire monegasco, nei bonifici ai Tullianos per la ristrutturazione della casa e pure nel trasferimento di 2,4 milioni di euro a Sergio Tulliani dal solito Corallo, con il «decreto 79/2009», che conteneva norme vantaggiose per Atlantis, indicato quale causale. Insomma Fini partecipava «a tutte le fattispecie penali della fase (...) di attualità del progetto societario come concorrente ideatore, perfettamente a conoscenza dei singoli snodi, dei tentativi societari prima, e delle conclusioni tese a più usuali investimenti commerciali poi».

E per la procura, la sua versione difensiva, messa nero su bianco nel lungo interrogatorio, non ha «il pregio della veridicità».

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