«Poco serio far crescere il debito» La Germania spara ancora su Draghi

A dispetto di quanto diceva Agatha Christie, in economia bastano spesso due indizi per fare una prova. Il doppio (e ravvicinato) siluro della Germania su Mario Draghi già basta a far capire l'aria che tira dalle parti di Berlino sul proposito sbandierato dal capo della Bce di allargare le maglie del piano di acquisto di bond. Se, all'inizio della settimana, a dar fuoco alle polveri era stato il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, che aveva bollato come inutile il quantitative easing , ieri ha rincarato la dose il falco tedesco per eccellenza, il ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble. L'uomo che più di tutti voleva una Grecia fuori dall'euro, non le ha mandate a dire a SuperMario, pur senza mai citarlo esplicitamente: «Non dobbiamo passare i costi delle sfide che dobbiamo affrontare ora alle generazioni future - ha tuonato - L'ulteriore crescita del debito e l'allargamento del mercato della moneta che arriva dalla banca centrale non sono né originali né seri». E a fronte di crisi del debito, ha chiarito Schaeuble, le «misure di politica monetaria delle banche centrali possono far poco per cambiare questo nel lungo periodo».

L'avversione della Germania nei confronti delle misure espansive è nota anche ai sassi. Solo dopo una lunga battaglia contro una Bundesbank dichiaratamente ostile, l'Eurotower è riuscita a varare il suo Qe. Peraltro, depotenziato e con uno scarico di responsabilità sulle singole banche centrali nazionali (l'80% degli acquisti di titoli pubblici è direttamente a loro carico) che non trova riscontro nei provvedimenti di sostegno decisi, per esempio, dalla Federal Reserve, dalla Bank of England o da quella del Giappone. Berlino non ha tutti i torti. La tendenza all'alleggerimento quantitativo ha portato benefici marginali all'economia, finito per drogare i mercati che pretendono dosi di liquidità sempre più massicce ed esasperato il moral hazard , ovvero l'assunzione eccessiva di rischi a fronte della convinzione che le banche centrali risolveranno ogni guaio.

La Cina in frenata è oggi il paradigma del potere salvifico attribuito dai mercati agli istituti centrali. Un esempio? Ieri la Borsa di Shanghai ha guadagnato quasi il 3% dopo aver accumulato perdite all'inizio di seduta. Un rimbalzo garantito dai forti acquisti fatti nell'ultima ora di contrattazioni dai fondi cinesi, su input del governo di Pechino, e sulle speculazioni che la People's Bank of China correrà presto ai ripari per dar respiro al mercato finanziario e all'economia. Gli ultimi dati hanno infatti confermato che il Dragone è sofferente: in agosto le esportazioni sono calate del 6,1% e le importazioni hanno subìto una picchiata del 14,3%. Altri colpi di piccone al Pil, cresciuto appena del 7,3% nel 2014 e destinato quest'anno a una performance ancora più mediocre (+3-4% secondo alcune stime). Un duplice problema che la Cina sta affrontando anche con la liquidazione di una parte delle proprie ingentissime riserve valutarie, come avvenuto il mese scorso con la vendita di 94 miliardi di dollari (lo stock è così sceso a 3.557 miliardi). Si tratta di un deflusso monstre con implicazioni sulla Federal Reserve, che la prossima settimana dovrà decidere se alzare o meno i tassi di interesse. La cessione di 500 miliardi di riserve avrebbe un impatto di 108 punti sul rendimento dei titoli decennali Usa. In pratica, lo stesso effetto di un rialzo del costo del denaro. D'altra parte, la possibilità che sul mercato vengano riversati 500 miliardi non è poi così remota: i Paesi emergenti hanno 7.500 miliardi di riserve, perlopiù in treasury americani. Una bella fetta potrebbe proprio essere venduta per contrastare la fuga di capitali che si innescherebbe in caso di un giro di vite ai tassi Usa.

Ma sulle prossime mosse della Fed i mercati

non hanno ancora sciolto gli interrogativi. Si naviga a vista. Ieri, voglia di rialzo in Europa (+1,48% Milano) grazie ai dati sul Pil e anche a Wall Street (+1,9% alle 20 ora italiana). Oggi è un altro giorno, si vedrà.

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