Due ore e cinque di videocolloqui tesi e nervosi in cui il presidente americano, affiancato dal segretario di Stato Antony Blinken e dal consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, ha ribadito il suo «sostegno alla sovranità e all'integrità territoriale dell'Ucraina», ma ha anche invocato il «ritorno alla diplomazia». E proprio la disponibilità americana al negoziato ha regalato al presidente russo un quasi scontato successo ai punti. Vladimir Putin ha infatti approfittato di quella disponibilità per ribaltare il quadro dello scontro sull'Ucraina. E così - allontanato il fantasma di una minacciata invasione - ha riproposto la prospettiva di contrapposizione strategica risolvibile attraverso un negoziato tra Washington e Mosca. L'operazione, studiata con largo anticipo, consente allo «zar» di archiviare il cosiddetto «format Normandia» basato sulla mediazione - già definita inadeguata dal Cremlino - di Parigi e Berlino per trasformarlo in un dialogo diretto con Washington. Una trasformazione che restituisce a Mosca quel ruolo di «alter ego» e antagonista obbligato della grande potenza americana a cui Putin non ha mai rinunciato. Certo, il presidente americano evita alla fine di ritrovarsi paralizzato in uno scontro devastante, ma non riesce a impedire che il summit con Zar Vlad si trasformi in una concessione al presidente russo. Del resto Putin aveva già vinto quando Joe Biden e il suo staff, preoccupati per l'asserita minaccia d'invasione russa dell'Ucraina, avevano deciso di affrontare un vertice a due in videoconferenza. La scelta della Casa Bianca era sicuramente svantaggiosa, ma in parte anche obbligata. E non solo per l'ermetica impenetrabilità di un presidente russo nelle cui scelte ben pochi riescono a distinguere il confine tra bluff e autentica minaccia. A condannare Biden contribuivano molti altri fattori. Sicuramente la decisione di mettere la Cina al primo posto nella classifica degli avversari strategici non lo ha aiutato. Quella scelta condiziona tutta la sua politica estera e gli impedisce, nel caso in questione, d'ipotizzare uno scontro armato con la Russia. Per farlo dovrebbe rivedere un disegno strategico orientato, sin dai primi giorni del suo mandato, sul quadrante dell'indo-Pacifico. Un quadrante su cui il glaciale Vladimir non ha perso l'occasione di infliggergli una dolorosa stoccata proprio nelle ore precedenti al summit. In India, dov'era in visita ufficiale, lo zar ha chiuso un accordo con il premier Narendra Modi per la fornitura del sistema missilistico anti aereo S400. Come dire che anche sul quadrante indo-pacifico un alleato come New Delhi - cruciale per la contrapposizione strategica a Pechino - preferisce allentare i rapporti con Washington e infittire quelli con Mosca. Un pessimo segnale figlio di quella débacle afghana che - oltre ad alimentare una crescente sfiducia nella potenza americana - condiziona anche lo scontro con Mosca. In caso d'invasione dell'Ucraina infatti - come Biden e i suoi collaboratori sanno bene, nessuno degli alleati europei parteciperebbe a una risposta militare guidata dagli Usa. Proprio per questo il presidente statunitense non ha potuto far altro che mettere sul tavolo la minaccia di devastanti sanzioni capaci di tagliar fuori Mosca da tutti i canali bancari e condannarla all'isolamento economico, finanziario e commerciale. Ma la minaccia, per quanto pesante, si è alla fine rivelata inutile. Lo Zar non aveva, infatti, nessuna intenzione di muovere i suoi carri armati su Kiev.
Gli bastava mettere mano ai negoziati sull'Ucraina e trasformarli in un rapporto a due tra Cremlino e Casa Bianca. Un ruolo che gli consente di trattare alla pari con gli Stati Uniti e costringe Biden non solo ad ascoltarne le richieste, ma, almeno in parte, a condividerle e accettarle.
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