Che l'uomo abbia un'alta concezione di sé, a prova di realtà, nonché una smisurata ambizione, era noto. Bastava un'occhiata al voluminoso curriculum semi farlocco presentato da Giuseppe Conte ai suoi esordi da aspirante premier per inquadrare il personaggio, che arriva dalla profonda provincia meridionale. E il lapsus freudiano dell'altro giorno, quando si è entusiasticamente proclamato «presidente della Repubblica» è rivelatore.
Di qui a pensare che Conte si immagini davvero come potenziale leader politico il passo è breve. E, secondo un retroscena del Messaggero, il premier starebbe già accarezzando un'ideona: presentarsi alle prossime elezioni politiche con un proprio «partito», e vedere come va: l'obiettivo di massima sarebbe un ritorno a Palazzo Chigi, altrimenti può sempre scapparci un ministero o un'altra carica istituzionale. Non è il primo premier «tecnico» a cui capita di avere questi sogni di gloria, e di lanciare un proprio partito: lo hanno già fatto Lamberto Dini nel 1996 e Mario Monti nel 2013. Non andò benissimo. E però il sospetto che Conte, eccitato dai sondaggi di popolarità che lo vedono ben piazzato (seppure in calo), stia tramando un simile exploit circola nel M5s. I rapporti con Di Maio, scrive il Messaggero, sono assai logorati. E le ragioni non sono difficili da capire: il video rubato delle confidenze di Conte alla Merkel è stato la classica ultima goccia che ha fatto esplodere le tensioni. Nel video l'azzimato premier blandiva la Cancelliera sussurrandole che lui, con le sparate dei suoi colleghi di governo contro Macron o la Ue, non c'entrava nulla, e che quei poveretti di Di Maio e soci le facevano per disperazione, spinti dai sondaggi in picchiata. Un modo per accreditarsi come interlocutore, delegittimando i suoi scostumati vice: indigeribile per Di Maio, anche se comprensibile dal punto di vista del premier, che si deve sedere ogni giorno ai tavoli europei che i suoi ministri prendono a calci.
Ieri, al Parlamento di Strasburgo, Conte si è arrabattato dando un colpo al cerchio e uno alla botte: era lì per ricucire con Macron ma anche per fare il suo sfolgorante debutto in aula, con una concione gialloverde sull'Europa dei popoli contro quella delle «élite». Non è andata bene: l'aula era semideserta, e le repliche al suo discorso sono state umilianti per il premier italiano. «Siete diventati il fanalino di coda Ue. Per quanto tempo ancora lei sarà il burattino di Salvini e Di Maio?», gli ha chiesto il leader liberale Guy Verhofstadt. Durissimo Manfred Weber, il candidato Ppe alla successione di Juncker, che affonda anche sulla Tav: «La mancanza di crescita in Italia non è colpa degli altri ma vostra. Una politica di investimenti Ue è indispensabile, ma in Italia c'é un governo che non riesce nemmeno a mettersi d'accordo su un progetto già approvato tra Italia e Francia». Una débâcle per Conte, insomma.
E in patria Di Maio e i suoi imputano alle sue «mediazioni al ribasso» la perdita di smalto del partito, e lo accusano di volersi mettere in proprio come un Dini qualsiasi. Ma alla Casaleggio l'aria è diversa. Lì si riflette su come arginare l'emorragia elettorale: il tabù anti coalizioni è caduto, si pensa alla creazione di finte liste civiche con cui allearsi alle regionali per recuperare voti, e si pensa anche alle Politiche.
Immaginando una «seconda gamba» moderata, da coalizzare al partito-madre, che aiuterebbe assai a rafforzarsi nei collegi uninominali e a farsi un po' di spazio al Nord, dove M5s non batte chiodo. E chi meglio del forbito Conte, col suo ciuffo imbrillantinato, il suo eloquio curiale e il suo «book» fotografico che lo ritrae in estasi coi Grandi del mondo potrebbe capeggiarla?
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