T ra l'Italia e il baratro (conti impazziti, scontro con l'Europa, procedura di infrazione, rischio default) c'è al momento un unico, fragile diaframma: l'ego di Giuseppe Conte.
Il «premier per caso», dice chi ci ha avuto a che fare nelle ultime settimane, ha avuto una sorta di «improvvisa illuminazione»: «Ha cominciato a capire che per l'Italia, grazie alla politica economica del suo governo, le cose si stanno mettendo male davvero, e che se asseconda la cupio dissolvi dei suoi vice lui rischia di restare sotto le macerie come responsabile del disastro». Lo ha anche detto esplicitamente a Salvini e Di Maio, riuniti con lui ieri a tarda sera a Palazzo Chigi: «Io non voglio essere il capo del governo che porta il Paese al default». E mette sul tavolo (via intervista al Corriere della Sera, alla vigilia del vertice) l'arma fine di mondo: o lasciate che sia io (o meglio Tria, che sa di che parla) a trattare con l'Unione Europea per evitare la procedura d'infrazione, oppure sono pronto ad andarmene. In pratica, i presunti «risparmi» derivanti dal flop del reddito di cittadinanza e da Quota 100 non vanno buttati in nuove spese elettoralistiche, ma investiti per risanare il deficit.
Che sia vanità, o reale senso di responsabilità (sia pur a scoppio ritardato) non è dato sapere. Sta di fatto che per la prima volta i due vicepremier si sono trovati davanti un Conte non disponibile a farsi plastilina nelle loro mani. I due si erano presentati armati di nuovi tric e trac propagandistici: da un lato Di Maio che batte i pugnetti sul tavolo chiedendo il «salario minimo per i lavoratori». Dall'altro Salvini che sventola la bandiera del fisco da tagliare: «Visto che la ripresa è zero virgola, l'Italia ci chiede di più. E l'unico modo è pagare i debiti e tagliare le tasse. Questo è quello che abbiamo intenzione di fare». E con una contro-minaccia, rivolta al premier: «Io sono al governo per aiutare gli italiani. Se qualcuno pensa di stare al governo per tirarla in lungo, non è quello di cui hanno bisogno gli italiani». Subito Di Maio si accoda: «Mi aspetto l'accordo sull'abbassamento delle tasse e sul salario minimo», pur lasciando all'alleato l'onere della proposta: «Spetta alla Lega spiegare come e con che soldi fare la flat tax».
Salvini celebra la «ritrovata e spero duratura sintonia» con il suo omologo grillino. Ad un patto: che sia la Lega a dettare l'agenda. Conte prova a mettersi di traverso, ricordando a Salvini che «i numeri in Parlamento non sono cambiati» dopo le Europee, e dunque il Carroccio è sempre fermo al 17% dei deputati e senatori. «Se vuoi decidere la linea, devi prenderti la responsabilità di chiedere nuove elezioni, e vincerle», è la sfida. Un tentativo di vedere il bluff salviniano: fin dove è pronto a spingersi il vicepremier leghista? È l'incognita su cui tutti si interrogano, nei palazzi romani, incluso il Colle più alto. La sfida sui minibot, visti dalla Ue come un pericoloso prodromo di Italexit, è solo uno strumento di pressione da usare nella trattativa con Bruxelles, lasciando poi a Tria, come a gennaio, il compito di rassicurare e trovare il compromesso, o si trasformerà in una vera arma di destabilizzazione contro l'Europa?
Poi c'è la partita del rimpasto e la nomina del commissario europeo. Salvini vuole sceglierlo, reclama «un nome della Lega» e un ruolo «di primo piano». Fa circolare i nomi di Lorenzo Fontana e Guglielmo Picchi, che prima di essere spostato a Bruxelles dovrebbe diventare ministro per gli Affari Europei. Ma nella Ue il fronte antipopulista, ossia quello che governerà in questa legislatura, si sta attrezzando.
E ha fatto già arrivare un messaggio chiaro a Palazzo Chigi e al Quirinale: se ci verrà proposto un nome non potabile, di un esponente smaccatamente sovranista o di profilo troppo basso, il Parlamento europeo lo impallinerà a maggioranza, nello scrutinio di commissione. Il precedente c'è: così fu bocciato Rocco Buttiglione. «Siamo pronti a fare il bis».
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