Quello del premier non è un commiato. Così l'ex Bce sceglie di restare in campo

Segnali a Letta e Meloni (che elogia l'intervento al Meeting di Draghi). Solo affondi per Salvini (sul sovranismo) e Conte (sull'agenda sociale) Calenda e Renzi: "Con impasse, deve restare"

Quello del premier non è un commiato. Così l'ex Bce sceglie di restare in campo

Continua a ripetere che la cosiddetta «agenda Draghi» non c'è. Al massimo, spiega, è «un metodo». E ripete in più di una occasione che «saranno gli italiani con il loro voto a scegliere il programma del futuro esecutivo». Eppure nel suo intervento al Meeting di Rimini - l'ultimo dedicato all'attività di governo e alla situazione italiana prima del voto del 25 settembre - Draghi non solo rivendica quanto fatto in questi 18 mesi ma ribadisce quelli che secondo lui sono i punti imprescindibili dell'azione di qualunque esecutivo.

Lo fa con un intervento che in molti si sarebbero aspettato meno politico. O, comunque, meno deciso. Invece l'ex numero uno della Bce è esplicito in ogni passaggio, concedendosi un po' di retorica solo quando fa professione di fiducia e si dice certo che, qualunque governo verrà, l'Italia saprà comunque stare al passo perché «siamo un grande Paese».

Per il resto rivendica i risultati ottenuti in questo anno e mezzo a Palazzo Chigi, un excursus che inizia dalla pandemia e dalla chiusura delle scuole e arriva ai giorni nostri, con il Pnrr e la guerra in Ucraina. Draghi invita a guardare avanti con «immaginazione e pragmatismo», si dice «fiero» di aver guidato l'Italia, fa un appello a tutti ad «andare a votare» e si augura che il prossimo esecutivo preservi «lo spirito repubblicano». Potrebbe sembrare un commiato, ma è esattamente il contrario. Perché nonostante sia in carica per gli affari correnti, di fatto sfiduciato da ben tre partiti che avevano inizialmente sostenuto l'esecutivo di unità nazionale, l'ex Bce non ha remore a ribadire, punto per punto, quelli che sono stati i cardini della sua azione di governo. E che, lo lascia evidentemente intendere, dovrebbero essere il punto di riferimento di chiunque domani andrà a Palazzo Chigi. È netto soprattutto su un tema: la distinzione tra sovranità nazionale e sovranismo, perché la collocazione internazionale del nostro Paese non può essere messa in discussione. «Il posto dell'Italia - dice - è al centro dell'Unione europea e ancorato al Patto Atlantico, ai valori di democrazia e libertà». E ancora, mai così tranchant contro il sovranismo, spiega che «protezionismo e isolazionismo non coincidono con il nostro interesse nazionale». Un messaggio indirizzato a Salvini e al M5s, anche perché Draghi cita esplicitamente le «recenti pulsioni che spingevano» l'Italia «a lasciare l'euro». E per Conte ce n'è anche quando parla di agenda sociale, perché il premier ci tiene a sottolineare che le priorità sono crescita e occupazione e che non si può ragionare esclusivamente su sostegno e assistenza.

Un discorso politico come poche volte era successo prima (mai da quando siede a Palazzo Chigi, forse ai tempi della Bce). Con un Draghi che sembra essere assolutamente in campo. D'altra parte, un punto su cui insiste più volte è quello della «credibilità internazionale». Che è importante non solo per la percezione all'estero, ma anche perché è proprio grazie a quel credito che si possono ottenere risultati sul fronte della politica interna. Ed è superfluo dire che ad oggi Draghi resta l'italiano più autorevole all'estero, non solo per la politica ma anche per i mercati. Il premier, insomma, sembra essere intenzionato a restare in pista. Si vedrà con che ruolo. Ma a condizioni diverse da prima. Certamente non con Conte e Salvini. Ma se il risultato delle urne decretasse una non vittoria del centrodestra (il punto sono i numeri del Senato), potrebbero aprirsi nuovi scenari. Non è un caso che nel suo intervento di ieri abbia lanciato, di fatto, segnali sia a Letta che a Meloni. Tanto che la seconda, nelle sue conversazioni private, non ha fatto mistero di aver apprezzato le sue parole (sia sulla legittimazione del prossimo governo a prescindere da chi vincerà, sia sul fatto che saranno gli italiani a decidere). Ed è in questa direzione che spinge anche il Terzo polo.

«Se non ci sarà una maggioranza chiara, sarà inevitabile andare avanti con Draghi», dice Calenda. Mentre Renzi punta il dito contro chi lo ha fatto cadere: «La destra di Meloni e Salvini, la sinistra di Fratoianni, il M5s di Conte».

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