Renato Zero non fa parte del Pantheon immaginifico di Matteo Renzi. Dunque il premier non potrebbe mai cantare né far cantare ai suoi aficionados il successo «sorcino» Mi vendo. Figurarsi in un momento nel quale l'Italicum è l'unica moneta buona da spendere in quel suk che si chiama Parlamento italiano. Vendersi significherebbe svendersi e dunque svalutare quel poco di denaro (politicamente parlando, s'intende) spendibile che è rimasto.
Nasce in un simile contesto l'intervista concessa ieri dal ministro delle Infrastrutture - e renziano ante marcia - Graziano Delrio al Corriere della Sera. Intervista immediatamente ritwittata dal premier per creare il suo caratteristico effetto spin. «L'Italicum è un'ottima legge che garantisce governabilità», ha dichiarato Delrio. «Se qualcuno vuole cambiarla e proporre una legge migliore, lo faccia», ha aggiunto precisando che «a pochi mesi dal referendum, mi pare un esercizio molto complicato trovare una maggioranza». Il quadro politico squadernato in poche righe come solo un democristianone d'antan come Delrio poteva fare. Tradotto in italiano il concetto è semplice: i sondaggi sul referendum vanno male, i sondaggi sulle intenzioni di voto e sulla fiducia nel premier ancora peggio, rinunciare ora al punto fermo della legge elettorale (in vigore da ieri) sarebbe un harakiri perché significherebbe ammettere l'incapacità di guidare politicamente la maggioranza.
È chiaro, infatti, che la modifica dell'Italicum sarebbe una concessione alla minoranza interna del Pd e anche agli alfaniani di Ncd che, stando sempre ai sondaggi, avrebbero chance molto risicate di superare lo sbarramento del 3% su base nazionale. Alfano, che è democristiano pure lui, ieri ha recitato la parte del filorenziano. «Avere governi più stabili è un valore», ha dichiarato avendo compreso che il momento di tirare la corda non è ancora arrivato. I bersaniani, invece, sono caduti in trappola. «L'Italicum va ripensato perché è una legge nata male», ha detto Federico Fornaro, senatore della minoranza, premettendo che «dalla direzione del Pd di lunedì deve uscire una chiara assunzione di responsabilità degli errori e dei limiti dell'azione del governo su temi quali la scuola, il lavoro per i giovani e il contrasto alla povertà». Ora il premier sa già che se vorrà recuperare alla causa referendaria la minoranza del Pd, non basterà l'apertura al premio di coalizione richiesto da Sinistra italiana per continuare a sopravvivere come alleato. Renzi per tenere tutto il partito dovrà, in pratica, rinnegare se stesso.
La speranza è guardare sull'altra sponda. Al centrodestra il premio di coalizione non dispiacerebbe (anche se c'è chi scommette che il listone unico sarebbe comunque stato varato) e, dopo l'intervista di Fedele Confalonieri alla Stampa, dalle parti di Palazzo Chigi sarebbero sicuramente contenti di una riedizione del Nazareno. L'Italicum, in questo caso, potrebbe rappresentare moneta di scambio sonante. Ma Forza Italia e il centrodestra, si interrogano i renziani, la accetterebbero? Il capogruppo Fi alla Camera, Renato Brunetta, ha risposto senza mezzi termini. «La riforma dell'Italicum la faranno le forze politiche che avranno mandato a casa Renzi con il referendum», ha commentato.
Questo atteggiamento rende più semplice assumere l'atteggiamento di (finta) sicumera del premier sintetizzabile nella filosofia dell'«o la va o la spacca». Se il referendum sarà vinto, l'Italicum non sarà più un problema dirimente, almeno fino a fine anno. In caso contrario, si materializzerà lo scenario prefigurato da Brunetta e la legge elettorale diventerà materia per il nuovo premier di indicazione quirinalizia.
Ma successivamente al varo della legge di Stabilità che proprio da ottobre comincerà il suo iter parlamentare. Ecco perché, indipendentemente dalla cavalcata dell'M5S nei sondaggi, Renzi può permettersi, per ora, di non cantare Mi vendo.
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