La verifica farsa: Conte consulta gli alleati per finta. Renzi ringhia ma non fa paura

Il presidente del Consiglio riceve a Palazzo Chigi le delegazioni di M5s e Pd per affrontare i problemi della maggioranza. I due alleati escludono il rimpasto mentre oggi tocca a Italia Viva e Leu

La verifica farsa: Conte consulta gli alleati per finta. Renzi ringhia ma non fa paura

Le danze della «verifica» si sono aperte ieri. Secondo il minuetto orchestrato dalla premiata ditta Conte-Casalino, la sfilata di Palazzo Chigi è iniziata con la delegazione Cinque Stelle, poi a sera sono spuntati i dem. Domani tocca al gran protagonista Matteo Renzi e infine (senza soverchia suspense) a Leu.

Se - dopo essere sfuggito per mesi al confronto con le forze politiche, e dopo aver approfittato della pandemia per estendere e blindare i propri solitari poteri - Giuseppe Conte ha accettato di avviare la cosiddetta «verifica», la ragione è semplice: la verifica è già finita.

Il premier infatti sa di avere la soluzione (l'unica che lo appassiona, ossia la garanzia della sua permanenza a Palazzo Chigi) già in tasca. Grazie alle rassicurazioni del suo Lord Protettore del Colle, che gli ha garantito che non avallerà crisi né rimpasti, e all'impasse di una opposizione bloccata nella rivalità da primedonne tra Salvini e Meloni, con l'uno che non può muovere un passo senza che l'altra si attacchi alle tende come una diva del muto, e viceversa, gli avversari interni, dall'impetuoso Matteo Renzi al flemmatico Nicola Zingaretti, non hanno alcuna strada alternativa. Quanto ai Cinque Stelle, il partito della ex Casaleggio è talmente disastrato e diviso in mille anarchiche tribù che l'unico «principio» che li unisce, ormai, è quello di evitare a tutti i costi il voto, e di restare aggrappati al governo, qualunque governo esso sia. Nessuno, poi, vuole rinunciare a un posto a tavola, fosse pure uno strapuntino, quando sul piatto ci sono i 200 e passa miliardi dell'Unione europea. Così Gigino Di Maio si esibisce nella surreale smentita di voler fare il premier al posto di Conte (ipotesi cui solo lui poteva credere). Mentre il ministro Patuanelli, curioso personaggio passato dalla totale oscurità alla cabina di regia del Recovery Fund, per l'unico merito noto di essersi messo anima e corpo sotto l'ombra di Conte, difende con passione il principale: «Il percorso pensato dal presidente Conte è giusto ed è l'unico possibile». Qualunque esso sia.

Quanto al Pd, al vertice di Palazzo Chigi Zingaretti si è presentato ieri con una propria contro-agenda che vede al primo posto non il rimpasto (nella miglior tradizione comunista è toccato a Goffredo Bettini, che per primo aveva proposto il rimpasto, dire che ora è diventato una bestemmia: «Parola orribile») o i poteri di Conte, ma la riforma elettorale, che non decolla per i veti di Renzi al proporzionale puro. Un modo per tirare il premier su un terreno scivoloso su cui Conte non vuole scendere, ma visto che a questa condizione il Pd ora gli assicura la poltrona («Se cade questo governo spingeremo per elezioni anticipate», sempre Bettini) si acconcerà a dare una mano. E questo, unito alla marcia indietro sulla «cabina di regia» del Recovery plan, con aperture alla partecipazione degli alleati, basterà a chiudere la partita, per ora.

Renzi assicura che non è finita qui: «La verifica si chiuderà dopo la legge di bilancio». E manda la Boschi in tv a dire: «Sul Recovery fund non può decidere un uomo solo». Intanto Zingaretti approfitta del colloquio con Conte per riaprire i dossier che agita inutilmente da mesi: «Sono troppi quelli bloccati dal governo e privi di soluzioni credibili: da Autostrade a Ilva a Alitalia. Per non parlare del Mes sanitario».

Ma già all'entrata della delegazione dem si rassicura: «Non parleremo di rimpasto, ma di questo importante passaggio del Recovery fund, su cui la maggioranza non può permettersi di sbagliare», dice il capogruppo al Senato Marcucci. Anche perché, come spiegano dalla maggioranza i ben informati, l'unica «realistica» prospettiva di rimpasto era quella di convincere Roberto Fico a candidarsi come sindaco di Napoli: si sarebbe così liberata una ambita poltrona, quella da presidente della Camera, che avrebbe potuto costituire l'innesco per un'indolore giostra di poltrone: Dario Franceschini a Montecitorio, rimescolamento di ministeri, Orlando e Delrio pronti al subentro eccetera.

Fico però non ci pensa neppure a mollare i dorati stucchi e il poco faticoso cerimoniale della Camera per cimentarsi nel suo primo confronto con gli elettori, tanto più che facilmente lo perderebbe. Quindi resta aggrappato allo scranno e il rimpasto va in archivio, anche se Conte si è detto disponibile ad aggiungere qualche sottosegretario. Bontà sua.

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