Politica

Il presidente e il fratello ucciso. L'esempio civico di Mattarella

Ieri le celebrazioni a Palermo in onore di Piersanti: una tragedia che Sergio non ha mai usato in politica

Sergio Mattarella
Sergio Mattarella

«A desso tocca a te», gli spiegò in quattro parole Ciriaco De Mita. E così l'uomo che non voleva fare politica è diventato presidente della Repubblica. La storia è triste. L'agguato in viale della Libertà, il killer «dagli occhi di ghiaccio, il piumino azzurro e l'andatura ballonzolante», la vendetta della mafia nel giorno dell'Epifania, i colpi alla tempia, al petto, alle spalle e al fianco, il fratello Piersanti, presidente della Regione Siciliana, che gli moriva tra le braccia, il testimone da raccogliere, l'università da lasciare. Sergio Mattarella non ha speculato quella tragedia personale e nazionale, non l'ha mai usata per fare carriera, non ha mai interferito sulle indagini, non ha provocato polemiche o sfilato con le agende rosse, o commentato sull'apertura e chiusura delle liste nere, o dato voce all'amarezza di un omicidio ancora senza colpevoli materiali. Semplicemente, non ne vuole parlare. Anche adesso, quarant'anni dopo durante la solenne cerimonia a Palazzo dei Normanni, preferisce restare in silenzio e ascoltare i discorsi degli altri.

Un dolore forte, «incancellabile», da vivere internamente. L'unica volta che si è lasciato andare risale al 20 marzo del 2015, un mese dopo l'inizio del suo mandato al Quirinale. Si «aprì», per modo di dire, con Chistiane Amanpour della Cnn. «Mio fratello era un dirigente politico nazionale della Democrazia Cristiana, presidente della Regione Sicilia. Quando fu ucciso dalla mafia stava uscendo di casa per andare a messa con moglie e figli. L'assassino si è avvicinato e sparato e anche mia cognata è rimasta ferita. Io sono stato chiamato dai miei nipoti e l'ho portato in ospedale, ma non c'era nulla da fare». Basta. «Per me questo è un ricordo molto doloroso, non ne ho mai parlato».

Un racconto asciutto, essenziale. Del resto il riserbo, il basso profilo, è la sua cifra, il suo modo di intendere il ruolo di servitore dello Stato. La vita privata, con le sue emozioni, tenuta separata da vita pubblica. Eppure quell'azione di guerra organizzata da Cosa Nostra ha cambiato la storia di un partito, di una regione e anche dell'Italia. Oltre alla storia di personale di Sergio Mattarella. Certo, in casa la politica si respirava. Prima il padre Bernardo, fondatore della Dc con De Gasperi e don Sturzo, costituente, ministro. E poi Piersanti, allievo di Moro e impegnato nel «rinnovamento» in una difficile Sicilia. Tra i due il rapporto era strettissimo, si vedevano sempre, avevano addirittura sposato due sorelle, le figlie del rettore Chiazzese.

Piersanti, negli anni caldi della mafia imprenditrice e degli omicidi eccellenti, aveva lasciato la professione di avvocato e, da presidente della Regione, si era battuto per riformare il sistema degli appalti e ammodernare l'amministrazione. Dunque in quel gennaio del 1980 per il fratello è stato quasi automatico, prendere il suo posto, e lo ha fatto con «la forza dell'esempio» e senza mai sfruttare la tragedia, senza usare il bacino elettorale e i contatti del fratello: da ministro, giudice costituzionale e ora presidente aveva tutte le possibilità per farlo, invece non esiste nemmeno una fondazione. Esistono però diverse verità politiche sull'agguato. Ma i neofascisti Fioravanti e Cavallini, accusati come esecutori materiali, sono stati assolti, il ruolo dei servizi non è mai stato provato.

L'unica cosa certa è la condanna dei boss della Cupola.

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