Lo prevede la riforma Brunetta. Che però non viene mai applicata

RomaEscludere gli statali dal Jobs Act? Si può sbianchettare il passaggio del decreto che lo prevede espressamente, come è successo al Consiglio dei ministri della Vigilia, secondo il racconto di Pietro Ichino. Ma l'articolo 18, sia quello vecchio sia la nuova versione, vale tanto per i dipendenti privati, quando per quelli pubblici. È praticamente unamine il giudizio dei giuslavoristi sulle polemiche degli ultimi giorni. Le affermazioni del ministro Marianna Madia e del responsabile economia del Pd Filippo Taddei - cioè non includere i dipendenti dello Stato e delle autonomie locali nella nuova disciplina - rischiano di creare ulteriore confusione in una situazione già troppo complicata (basti pensare ad una riforma che si applica solo ai nuovi assunti).

Si è discusso di estensione del «contratto a tutele crescenti» agli statali, quando - come hanno osservato il giuslavorista Michele Tiraboschi e Giuliano Cazzola - nei decreti attuativi del Jobs Act varati dal governo non c'è traccia di questa riforma del lavoro. Nemmeno per i privati, figuriamoci per i pubblici.

Resta la riscrittura dell'articolo 18. Quella c'è, ma non può che essere applica sia ai dipendenti pubblici, sia a quelli privati. Unica eccezione, i licenziamenti economici (quelli che i decreti attuativi del Jobs Act rafforzano). Nel pubblico non sono previsti, ma già ci sono procedure di mobilità specifiche, previste dall'ultima riforma del centrodestra, firmata da Renato Brunetta. Sono quelle che il governo Renzi vuole applicare ai dipendenti in esubero delle Province. Ed è forse per questo - spiegavano ieri fonti governative - che l'articolo incriminato, quello salva statali, è scomparso dai decreti del Jobs Act.

Per il resto, dire che l'articolo 18 non si applica ai pubblici significa andare contro la Costituzione e anche contro il buon senso, visto che l'articolo 18 dello Statuto era, e resta, una norma che tutela i lavoratori.

Il fatto che nessuno si sia mai accorto che le norme sul reintegro siano applicate anche allo Stato è dovuto al fatto che di licenziamenti pubblici ce ne sono pochissimi. Su circa 3,5 milioni di dipendenti pubblici, di licenziamenti nello Stato e negli enti locali se ne contano poco più di cento all'anno. Nel privato sono circa 40mila, su una platea di circa 11 milioni di dipendenti a tempo indeterminato.

Le norme ci sarebbero. Lo ha ricordato ieri anche la Cgil. La riforma Brunetta del 2009 rende gli statali, sia dirigenti sia dipendenti semplici, licenziabili se non fanno il loro lavoro. Se queste leggi non vengono applicate quasi mai è perché nessuno si prende la responsabilità di licenziare un dipendente pubblico. Anche perché, come osservò tempo fa proprio Pietro Ichino, i dirigenti rischiano di essere ritenuti responsabili verso l'erario.

Di tentativi di mettere sullo stesso piano lavoro pubblico e privato ce ne sono stati tanti. Dopo la riforma Fornero. Il Nuovo centrodestra, ha ricordato ieri l'ex ministro Maurizio Sacconi, ritirò «un emendamento per la omologazione del lavoro, pubblico e privato» per introdurre l'apprendistato, come alternativa «a quel precariato di lungo periodo che poi si stabilizza senza concorso». Contratti soggetti «alle procedure di licenziamento individuale e collettivo». Il governo si impegnò a realizzare questi obiettivi. Con il Jobs Act non è successo.

Ma anche se si dovesse tentare - come annunciato da Madia - con una riforma ad hoc, resta il ragionevole dubbio che anche questa si trasformerà nell'ennesima legge inapplicata. Perché lavoro pubblico e privato in Italia restano due pianeti lontanissimi.

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