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"Via dal Pride sigle ebraiche e stelle di David". La crociata di estrema sinistra e collettivi

Odio anti-Israele. Ma i gay palestinesi perseguitati si rifugiano a Tel Aviv

"Via dal Pride sigle ebraiche e stelle di David". La crociata di estrema sinistra e collettivi

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Via le stelle di David dal corteo. Si tratta del Pride, non delle manifestazioni per il 25 aprile, eppure la logica è la stessa: fuori Israele, fuori i sionisti, fuori gli ebrei insomma.

L'estrema sinistra, anche in Italia vuole escludere dagli eventi in programma le associazioni Lgbt ebraiche (peraltro molti vive e radicate) e vuol farlo per puro odio ideologico contro Israele.

Il «Pride Month», il mese dell'orgoglio Lgbt, è appena iniziato a giugno, a Roma l'appuntamento è per il 10, e i gruppi arcobaleno antagonisti, e i «collettivi queer», hanno dato battaglia per organizzare un contro pride «senza sionisti», oltre che «senza corporation» e «senza polizia». In effetti il movimento è molto articolato e su varie questioni discute a fondo. Anche sulla partecipazione degli sponsor, o sulla adesione delle sigle degli agenti o delle agenti Lgbt. Sono temi reali, che interrogano la Comunità: è giusto ricevere denaro da compagnie private? È opportuno ospitare rappresentanti delle forze dell'ordine? «Su questo c'è un giusto dibattito - spiega un attivista storico - sulla Magen David Keshet, invece, è solo antisemitismo travestito da antisionismo».

Il movimento Lgbt in Israele ha una tradizione fortissima. Due giorni fa a Gerusalemme hanno sfilato 30mila persone. E la polizia ha fermato, in varie città, tre persone che avevano aver espresso «posizioni estreme» contro il movimento Lgbtq. Per la Pride Parade di Tel Aviv si parla della «parata più grande di sempre». La «città che non si ferma mai» è ormai simbolo globale di uno stile di vita vivace, cosmopolita e «gay-friendly», vale a dire inclusivo, aperto e amichevole nei confronti delle associazioni di omosessuali e transessuali.

Eppure per le voci irriducibilmente ostili a Israele e all'Occidente, quindi per l'estrema sinistra e gli ultrà filo-arabi, si tratta solo di «pinkwashing», ovvero di campagne che tenderebbero a dipingere come moderno, progressista e libertario uno Stato ebraico che invece - ai loro occhi - si macchia di terribili colpe nei confronti degli arabo-palestinesi. Esistono gruppi e sigle nate allo scopo di delegittimare e boicottare questa immagine di Israele come culla dei diritti civili, e con la malintesa intenzione di difendere i palestinesi.

Quindi «cacciare i sionisti» dal Pride, nonostante la realtà di Israele, è come cacciare la Brigata ebraica dal 25 aprile, nonostante abbia contribuito a liberare l'Italia. È un altro corto circuito vero e proprio, se si pensa che i pochi omosessuali dichiarati che vivono nelle città palestinesi sono perseguitati, da Hamas (retrograda sezione locale dei Fratelli musulmani) incriminati con vari pretesti e costretti a vivere nell'ombra; spesso sono cacciati dalle famiglie o fuggono perché minacciati nella loro incolumità fisica, e non di rado vengono accolti proprio in Israele. Pochi mesi fa anche «Il Manifesto» ha raccontato il «brutale omicidio a Hebron di un giovane gay palestinese, Ahmad Abu Marakhia, 25 anni, compiuto da sconosciuti.

Il suo corpo, mutilato, è stato abbandonato nelle strade della città».

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