Tra le tante storture che una guerra si porta dietro, tra le pieghe dell'invasione russa in Ucraina ce n'è una che ha del paradossale. In base alle modifiche al codice penale apportate da Mosca dopo il conflitto, se un cittadino russo dicesse di non essere d'accordo con il ritiro delle truppe da Kherson, verrebbe arrestato con l'accusa di discredito delle forze armate. Ma se lo stesso cittadino dicesse invece di essere totalmente d'accordo con la scelta e fosse allineato al Cremlino, sarebbe comunque arrestato per incitamento alla violazione dell'integrità territoriale russa. Follie, proprie soltanto di un regime come quello di Putin. Ma che portano ancor più all'evidenza uno status quo che nessuno in Russia aveva previsto quasi 9 mesi fa. E impone riflessioni e ipotesi che puntano verso un dialogo. Nulla di facile, sia chiaro, ma se non siamo a un «ora o mai più», poco ci manca.
Da una parte la Russia che si ritira da una zona strategica, dall'altra l'Ucraina che prende coraggio e vuole scacciare l'invasore. In mezzo c'è un mondo, spesso nascosto e sotterraneo, fatto di parole, accenni, contatti formali e informali. Sergei Tsekov, membro del Comitato per gli affari internazionali russi, racconta che «i negoziati tra Mosca e Kiev alla fine ci saranno» anche se i tempi dipenderanno soprattutto da Stati Uniti ed Europa. Nella marea di propaganda che fluisce da Mosca, questa può essere davvero una verità. Perché in campo ci sono tanti altri attori, né russi, né ucraini, che non sono affatto comprimari. Su tutti gli Stati Uniti, che da giorni hanno avviato colloqui diretti e sottotraccia. «È la Russia, non l'Ucraina, a dover decidere se andare o meno al tavolo», ha detto il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan aggiungendo che «l'incredibile tenacia e abilità degli ucraini, supportati dal sostegno incessante e unito degli Stati Uniti e dei nostri alleati ha portato a questo momento». Un momento chiave, anche se Zelensky esulta e dice: «In Donbass e in Crimea presto festeggeremo come a Kherson». Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, forte dei risultati sul campo, da una parte chiude la porta e dice che «la guerra continua e la lotta per la liberazione del Paese andrà avanti finché i russi non lasceranno l'Ucraina» e ribadisce che quella di Kiev sarà «una vittoria congiunta di tutto l'Occidente». Ma dall'altra, incontrando il segretario di Stato Usa Antony Blinken, si dice anche disposto a incontrare il suo omologo russo Sergej Lavrov: «Se riceverò una proposta adeguata, valuteremo attentamente la sua richiesta, tenendo conto di tutti gli aspetti e le realtà della situazione». Una porticina che si apre.
Ma la via per la pace resta molto tortuosa. Vuoi per un conflitto che sul campo, comunque, non si ferma. Vuoi perché nessuno, tanto meno i russi, ci stanno ad alzare bandiera bianca e porre fino alla guerra senza portarsi nulla a casa. Al punto che l'ex presidente russo Dmitri Medvedev, continua a tenere i toni altissimi. «Mosca continuerà a riprendersi i territori russi e per ovvie ragioni non ha ancora utilizzato tutto il suo arsenale di possibili armi di distruzione in Ucraina. Questo non solo per la nostra gentilezza umana, ma tutto ha il suo tempo», ha detto.
Ma qualcosa si muove. Non ci sono solo gli Stati Uniti in campo. Entro le prossime 48 ore è in programma un colloquio tra il presidente russo Putin e quello turco Erdogan. Il presidente turco da tempo spinge per la pace anche, o soprattutto, per motivi di interesse personale legati per esempio all'export di cereali. Fatto sta che rimane un interlocutore privilegiato dello Zar. C'è anche, come detto non a caso dai russi, l'Europa e un'altra superpotenza che finora ha scelto la linea attendista, la Cina. Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ieri si è appellato proprio all'impero del Dragone chiedendo di «usare tutti i mezzi per convincere la Russia a rispettare i confini internazionalmente riconosciuti e a rispettare la sovranità dell'Ucraina», appellandosi alla cooperazione internazionale in vista del prossimo G20.
Per la Russia in cortocircuito (ancche) che perde terreno, fiducia e rischia l'isolamento globale, una presa di posizione netta dell'unico alleato forte rimasto potrebbe essere il colpo decisivo. E mettere finalmente fine alla guerra.
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