Domenica sera le luci, all'ultimo piano, del palazzo quattrocentesco della Generalitat sono rimaste accese fino a tardi. Nel suo ufficio che guarda sulla piazzetta con i magnifici lampioni in stile liberty, Carles Puigdemont ha incontrato, ancora una volta, la sua squadra di disobbedienti, prossima all'esautorazione tra sei giorni. Sabato sera, il President, dopo avere preso parte assieme al vice Oriol Junqueras, l'ex governatore Artur Mas e il portavoce e consigliere alla presidenza, Jordi Turull, alla grande manifestazione in risposta alle misure di Madrid per commissariare la Catalogna, si era rinchiuso nel palacio per rispondere in tv, prima in spagnolo e poi in catalano, a Rajoy.
Lo aveva apostrofato con parole più garbate, rispetto agli epiteti di «dittatore» e «franchista» esplosi da Junqueras e Forcadell, presidentessa del Parlament, che da 48 ore urlano al Golpe de Estado. Per Puigdemont Madrid ha agito fuori dallo Stato di diritto che, in fondo, è come accusare Rajoy di essere un golpista. Quell'ostinato premier di Madrid col quale ormai la cuestión catalana si è quasi ridotta a una questione prettamente personale: «Non gli rispondo», «Non è il mio Presidente del Consiglio» e via verso lo strappo totale. Domenica, tramite il portavoce Turull, il President ha confermato che non ci saranno elezioni anticipate. Così, dopo il «protocollo Kosovo», per nulla recepito dall'Europa, ora spinge per un suicidio politico, come kamikaze che non ha più nulla da perdere: restare al comando fino a quando Madrid non invierà la Guardia Civil a rimuoverlo fisicamente dalla poltrona. Poi sarà la magistratura a fare il suo corso, contestandogli pagine di reati. E dopo le probabili condanne, multe e interdizioni, nemmeno un miracolo aiuterà il President a risorgere a leader di una nuova formazione politica. L'ha già fatto una volta, tre anni fa, quando rottamò la cianotica coalizione Ciu (Convergenza e Unione), infestata dai peggiori politici inquisiti per tangenti, (Jordi Pujol e Artur Mas), dandole un nuovo candore pubblico sotto la nuova bandiera del PDeCat.
Lui, sempre più solo e sordo. Anche ai consigli del suo vice Junqueras, che, come una litania, dal 10 ottobre gli suggerisce di sciogliere il Parlament e di mandare la Catalogna subito alle urne, massimo a dicembre. Prima che lo faccia Madrid nei prossimi sei mesi, quando anche la parte più pro separazione avrà avuto modo di riflettere con calma e ascoltare anche le valide ragioni del comitato unionista. Oggi o domani, dovrà scegliere davanti al plenum del Parlament: proclamare da kamikaze la Catalogna indipendente (come sembra sia intenzionato) e, quindi, finire in arresto per l'ennesima violazione costituzionale, o scegliere una dignitosa uscita di scena, legale e indolore, restituendo alle urne la volontà di tutti i catalani e non umiliarli con la perdita dell'autonomia.
Martedì o, forse, venerdì per essere in linea di collisione con il voto del Senato, Puigdemont farà l'ultima mossa dei suoi venticinque anni di carriera politica, davanti all'ultima plenaria da President, dove, secondo Turull, parlerà «soltanto» della situazione catalana.O sparerà alla sua tempia l'ultima cartuccia rimasta, come si fa nel gioco suicida della roulette russa, annunciando la nascita di una nuova nazione col sacrificio della sua morte politica.
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