Elezioni politiche 2022

Purghe democratiche

A volte più che i programmi sono i nomi che dovrebbero realizzarli a dare il segno di dove sta andando un partito

Purghe democratiche

A volte più che i programmi sono i nomi che dovrebbero realizzarli a dare il segno di dove sta andando un partito. Ebbene, a parte foglie di fico come Carlo Cottarelli e Pier Ferdinando Casini, il vascello del Pd nel suo perenne navigare nell'oceano della politica fa di nuovo rotta verso un passaggio a sinistra. C'è la logica del rancore, come la definisce Matteo Renzi, cioè il massacro degli ex seguaci dell'ex segretario, spietato quanto quello degli ugonotti, e c'è la legge dei capibastone, cioè il tentativo di Letta di accontentare i boss del partito nella speranza di creare una catena di solidarietà in caso di sconfitta: ma il vero dato che emerge dagli inserimenti a sorpresa e dalle esclusioni eccellenti nelle liste dei candidati è che il baricentro del partito di Enrico Letta si è spostato sensibilmente verso i mondi che piacciono a Orlando, Provenzano, Bersani e Fratoianni.

Già solo la scelta di aver escluso o comunque collocato in uno di quei posti in cui essere eletti equivale a vincere una lotteria un personaggio come Vincenzo Amendola, che ha curato per il Pd i rapporti con l'Europa e il Pnrr, dà l'idea di quale futuro l'attuale segretario immagina. E in questo quadro, duole dirlo, l'agenda Draghi o il draghismo professato urbi et orbi è solo fuffa elettorale. In realtà con queste liste e questa impostazione Letta tenta di rubare spazio ai grillini e in ogni caso a tessere una tela che punta a riallacciare un'alleanza con Giuseppe Conte dopo le elezioni.

È la sola chiave di lettura che riesce a spiegare l'inspiegabile, cioè le decisioni prese dal vertice del Pd nella scelta dei nomi. Preferire Fratoianni ad un costituzionalista del calibro di Stefano Ceccanti è il segnale di una precisa scelta di campo. Come pure dare mano libera a Michele Emiliano nella scelta dei candidati in Puglia. O ancora blindare l'ex presidente della Camera Laura Boldrini. La verità è che Letta - a parte appunto le foglie di fico - ha deciso di non guardare più verso l'area moderata ma insegue sotto sotto di nuovo il populismo di sinistra. L'ennesimo ritorno alle origini. Del resto c'è una regola in natura: quando il Pd è in difficoltà, per un preciso meccanismo antropologico, subisce il richiamo della foresta. Una scommessa che può anche avere una sua ratio elettorale: riprendersi, cioè, il voto attratto negli ultimi anni dal grillismo imperante. Ma che nel contempo prevede un costo pesante perché ipoteca la linea del Pd dopo il 25 settembre.

Con il personale politico che Letta si porta in Parlamento, infatti, è difficile immaginare scelte lontanamente liberali in economia: si regala un seggio a Cottarelli, ma con i gruppi parlamentari zeppi di sindacalisti alla fine il vertice del Pd sarà costretto a seguire la bussola economica e i diktat di Maurizio Landini. Stesso discorso vale per la giustizia: è evidente che con la presenza tra le fila di deputati e senatori di personaggi che si ispirano ad una nuova edizione, riveduta e corretta, del giustizialismo, lo spirito garantista, già debole di suo nel Pd, andrà a farsi benedire. Non parliamo poi della politica fiscale: le prime avvisaglie della svolta statalista e assistenzialista si sono viste in questo scorcio di campagna elettorale. E in fondo anche la solita tecnica di delegittimare se non criminalizzare l'avversario è il ritorno ad una tattica che è l'emblema culturale (si fa per dire) del populismo di sinistra.

Una politica regressiva con la quale Letta mira a traguardi più modesti: non punta a vincere le elezioni, obiettivo che presupporrebbe la scelta di candidature di qualità coniugabili con un'ipotesi di governo tipo l'agenda Draghi; ma ad accasare tutte le tribù di sinistra nel tentativo complicato di diventare il primo partito.

In fondo solo una polizza per assicurarsi la sopravvivenza.

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