Quando l'Italia era divisa tra alfisti e lancisti

Fino a ieri il marchio del Biscione era noto e ammirato per il passato più che per il presente

Quando l'Italia era divisa tra alfisti e lancisti

L'uscita di una nuova automobile, specialmente se italiana, stimola sempre la curiosità dei cittadini. Se poi la neonata vettura è un'Alfa Romeo, come in questo caso, la loro fantasia galoppa. Anche a ritroso, visto che fino a ieri - giorno della presentazione della Giulia, un nome una garanzia - il marchio del Biscione era noto e ammirato per il passato più che per il presente. Il declino dell'Italia, d'altronde, è stato segnato dalla produzione automobilistica, florida negli anni Cinquanta e Sessanta, poi sempre più scadente e, ahimé, capace di rappresentare al meglio il peggio del Paese.

Il fatto che la fabbrica, un tempo milanese (Arese), poi ceduta alla Fiat per un chilo di fave (opera indecente di Romano Prodi), si sia risvegliata sfornando un modello dal nome vecchio e glorioso, ma completamente rivisitato in chiave modernissima, ultratecnologica, sortisce l'effetto di una iniezione di fiducia su tutti noi. La speranza è che la Giulia 2015, discendente da nobile schiatta, segni una svolta nell'industria patria in disarmo. La vettura è stata progettata da centinaia di ingegneri rampanti e, sulla carta - non ancora sulla strada -, ha le caratteristiche idonee a conquistare i mercati internazionali e riconquistare i cuori degli alfisti, innamorati del rombo inconfondibile - direi musicale - dei bolidi rossi portati al trionfo da Tazio Nuvolari, un pilota, una leggenda.

L'Alfa infatti non è solo una «scatola a rotelle», è rimasta una passione, un sogno nostalgico. Se la Giulia sarà all'altezza della (pur sbiadita) tradizione Alfa Romeo, vorrà dire che il made in Italy ricomincerà a infastidire la reputazione tecnica e meccanica delle rinomate case tedesche: Mercedes, Audi e addirittura Porsche. Probabilmente siamo troppo ottimisti, però ci piace immaginare che Sergio Marchionne, dopo aver trasferito tanti impianti industriali all'estero, abbia riservato una lieta sorpresa ai connazionali delusi: una macchina fascinosa e potente, in grado di spopolare e, magari, di tornare a essere uno status symbol, com'era una volta qualsiasi vettura del Biscione. Non mi addentro nelle questioni motoristiche, non avendo dimestichezza con cilindri, sospensioni e roba simile. Mi limito a dire che un successo farebbe bene al morale di molti, anche di chi non ha la patente né l'intenzione di prenderla.

Nonostante il traffico insostenibile nelle città e lungo le circonvallazioni, l'auto ben costruita crea suggestioni e il desiderio di possederla; insomma si fa notare ed è una fonte di propaganda mobile e continuativa. Mi sia consentito, per concludere, rammentare i tempi eroici dell'automobilismo italiano, quando i maniaci del volante si dividevano in due categorie: gli alfisti e i lancisti. Categorie sociologiche, oserei dire. La prima era costituita da gente sportiva, amante della velocità e delle spericolatezze, talora un po' sbruffona, esibizionista.

Chi era affetto da bullismo automobilistico soleva guidare la Giulietta sprint o spider con il gomito sporgente dal finestrino abbassato: un atteggiamento che rivelava ostentazione di disinvoltura nel maneggio dello sterzo. Erano anni in cui i giovani, ricchi e poveri, la sera frequentavano il bar, un luogo talmente democratico al punto che tutti si davano del tu, a prescindere dal censo e dalla posizione sociale.

L'alfista spacconcello posteggiava davanti al locale, non senza rumoreggiare azionando l'acceleratore onde attirare l'attenzione degli avventori. I quali uscivano ad ammirare la vettura e si informavano dal proprietario circa le prestazioni della stessa. Il bullo rispondeva secco: ieri ho percorso la Milano-Torino in 56 minuti, da casello a casello. Proprio così, da casello a casello. Lo stupore dei presenti esplodeva in un'ovazione. Intendiamoci, l'Alfa non era una macchina per soli burini. Tutt'altro, era gradita alle persone dinamiche, in particolare ragazzoni benestanti o anzianotti non rassegnati ad ingrigire. Mentre i tifosi della Lancia erano signori raffinati, badavano maggiormente alla comodità e al lusso e alle rifiniture che non ai cavalli del motore. Acquistavano l'Appia, che era una piccola Rolls Royce compatta (gli sportelli si chiudevano perfettamente senza sbatterli) oppure, quelli un po' più abbienti, la Flavia, silenziosa e spaziosa.

I milionari optavano decisamente per la Flaminia (uno spettacolo), una delle quali è ancora funzionante al Quirinale e di tanto in tanto compare in tivù con a bordo il presidente.

Lancisti e alfisti discutevano per giustificare la loro preferenza per una marca o per l'altra, e lo facevano anche con foga, compatendosi a vicenda secondo uno stile ancora in voga nei dibattiti politici, durante i quali - tra chi è di destra e chi di sinistra - vola qualche insulto. Non mi illudo che la Giulia avrà la forza di rinverdire gli anni epici della motorizzazione nazionale, ma spero che incida sulle ordinazioni. Chissà, se l'auto si muove, forse si muove anche l'economia.

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