Il marito di Liliana Segre, senatrice a vita e testimone vivente dei guasti dell'antisemitismo e dei campi di concentramento nazisti, era un antifascista cattolico. Nulla di strano. Se non fosse che il suo cuore di uomo d'ordine, con una carriera militare, batteva a destra. E se non fosse che, come è stato possibile appurare spulciando negli archivi del Viminale, nel 1979 avesse deciso di candidarsi alla Camera con il Movimento sociale italiano ma come «indipendente». Neanche 700 voti. Già, l'Msi di Giorgio Almirante, il cui destino curiosamente si è intrecciato di recente con la stessa Segre per via del pasticciaccio della via intitolata (legittimamente) all'ex leader Msi dal Comune di Verona nel giorno della cittadinanza scaligera offerta (e rifiutata) dalla stessa Segre. Il perché Alfredo Belli Paci, morto nel 2008, avesse scelto di correre nel Movimento sociale «da posizioni antifasciste» l'ha spiegato al Giornale il figlio Luciano, che con il padre condivide la passionaccia per la politica, seppur da sponde opposte. «Ero il segretario provinciale dei giovani del Psdi, poi ho militato nel Psi, nei Ds, in Sd, Sel e infine Liberi e Uguali - dice al telefono con Il Giornale - non mi sono spostato io, che resto sulle posizioni di Saragat». Ma i tormenti politici del figlio sono poca cosa rispetto a quelli della madre alla notizia della candidatura: «Non le nascondo che fu un periodo difficile per lei e che la scelta di mio padre portò a delle lacerazioni nei nostri rapporti. Fin quando poi si decise a mollare tutto e a fare l'avvocato, da solo e poi insieme a me». Certo, c'è una Milano da raccontare e un clima irrespirabile che nessun libro di Storia potrà mai neanche lontanamente riuscire a far capire. «Siamo negli Anni '70, mio padre lavorò insieme ad altri - liberali, monarchici e antifascisti, lo scriva mi raccomando... - a quell'esperimento politico chiamato la Costituente di Destra», poi diventata Democrazia nazionale che trovò in Pietro Cerullo l'ispiratore insieme a Ernesto De Marzio, il generale Giulio Cesare Graziani, finanche Achille Lauro. Un tentativo di sfuggire al ghetto nel quale il fin troppo nostalgico Pino Rauti aveva confinato il Movimento sociale. L'esperimento fallì «ma papà ci credeva ancora, e per questo disse sì alla candidatura».
Nonostante il no alla Repubblica di Salò gli fosse costato la permanenza in «sette campi di concentramento». Dalla storia della famiglia Segre arriva un'altra lezione a chi si ostina a dividere tutti in buoni e cattivi e a pretendere di avere la verità in tasca.
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