Il saluto di benvenuto sta tutto nelle grida dei detenuti: «Assassina». La mamma di Loris entra nel carcere di Catania e riceve un agghiacciante biglietto da visita. Urlano tutti contro di lei. Dentro e fuori. La folla e i condannati. E l'indignazione schiumante dei galeotti sembra quasi quella della gente comune. Quelle che sta oltre le mura. E non vorrebbe aspettare più di tanto il processo e la sentenza. Con una differenza. In galera si protesta con la manopola del volume al massimo. Con frastuono di decibel e parole definitive come pietre: «Infame». «Mostro». Devi morire».
È la colonna sonora della nostra cronaca nera più nera. Le croci più dolorose e oscure degli ultimi anni sono puntualmente accompagnate dall'esasperazione delle voci di dentro. Quelle che partono dalle celle affollate, dai corridoi con tanti portoni da superare, dai cortili stretti dove aspirare l'ora d'aria. È successo. Succede ancora. Succederà di nuovo. Annamaria Franzoni arriva a Bologna, alla Dozza, dove poi si troverà come vicina l'altrettanto celebre Wanna Marchi, e trova il muro delle detenute che vorrebbero linciarla e le augurano il peggio possibile. Col tempo s'inserirà, ma il primo impatto è quello che è. Il giudizio è affilato come la lama di un coltello e non prevede il beneficio del dubbio: la mamma di Cogne ha fatto scempio del figlio. E come tale dev'essere trattata. Altro che rieducazione. Almeno in prima battuta il verdetto della corte galeotta è una condanna a morte. O almeno ad andarsene il più lontano possibile. Per non disonorare quel luogo che pure raccoglie personaggi dal curriculum non proprio specchiato: bancarottieri, rapinatori, assassini, truffatori di un pezzo intero d'Italia come la Wanna nazionale. Niente da fare. C'è un limite che non dev'essere oltrepassato. Una porta che non dev'essere aperta. Una soglia invalicabile. E chi la supera lo fa a suo rischio e pericolo. Perché le corti d'assise straordinarie di San Vittore o di Poggioreale possono emettere sentenze lampo. Feroci. E senza appello.
Chi si spinge nella notte più buia oltraggiando un bambino innocente perde la solidarietà che tutto copre come un mantello e che nelle patrie galere diventa una rete di sicurezza per sopravvivere. Via e via quella sorta di omertà protettiva che tutto avvolge.
La Franzoni come Olindo. Anche lui, per di più spalleggiato dalla moglie Rosa, si macchia di un crimine indescrivibile e ammazza un bambino che aveva il torto di piangere. Pure lui riceve la sua dose non omeopatica di minacce. E lo stesso capita a Giuseppe Bossetti, il presunto killer di Yara. Lo arrestano e lo portano nel penitenziario di Gleno. Qui, secondo Repubblica , qualche gentiluomo gli sussurra paroline dolci come lo zucchero filato: «Infame, la pagherai, ammazzati». Tanto da mettergli paura e spingerlo dal cappellano per cercare conforto. A volte si viene persino assaliti dal tarlo che sia tutto un luogo comune. Un riflesso condizionato dei giornali. Uno stereotipo che vive comunque anche quando non c'è o non c'entra. Non si sa mai bene se il linciaggio, gli insulti, i gesti di scherno siano fiction o realtà. Bossetti lo ritroviamo che gioca tranquillamente a carte con i compagni di sventura.
E però Mario Alessi, il muratore che ebbe il coraggio di rubare l'innocenza al piccolo Tommy, sarebbe stato pestato a Parma. Tanto da dover essere trasferito a Viterbo. Episodio smentito e però parte della letteratura giudiziaria.Certi crimini sono troppo per tutti. Anche per chi è dietro le sbarre.
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