Quegli indizi trascurati dai giudici nell'inchiesta sulla casa monegasca

Dai flussi di soldi ai racconti dei vicini di casa, il "Giornale" aveva scoperto tutto già sette anni fa. Ma il caso fu archiviato in fretta

Quegli indizi trascurati dai giudici nell'inchiesta sulla casa monegasca

Roma - Era il 26 ottobre 2010 e la procura di Roma rese noto di aver messo sotto indagine Gianfranco Fini per la vicenda della casa di Montecarlo. La notizia. però, arrivò solo nel giorno in cui i pm titolari del fascicolo chiesero l'archiviazione per l'allora presidente della Camera e per l'ex tesoriere di An, Pontone. Per i magistrati non c'era «truffa», e «nessun artificio o raggiro» era stato messo in piedi da Fini, che come leader del partito, concludevano le toghe, sarebbe stato «titolato a disporre del suo patrimonio». Quanto al prezzo, risibile, al quale la casa era stata venduta, i pm alzarono ugualmente le mani, mettendo nero su bianco che «qualsiasi doglianza sulla vendita a prezzo inferiore non compete al giudice penale ed è eventualmente azionabile nella competente sede civile». Era l'anticamera dell'insabbiamento, certificato poi nel marzo successivo dal gip. Eppure il seguito giudiziario della vicenda, con i clamorosi sviluppi che piantano quella storia e quella casa al centro di una presunta evasione di milioni di euro da parte della holding del gioco di Francesco Corallo, in un intreccio di interessi e bonifici milionari con Giancarlo ed Elisabetta Tulliani (e il tutto «d'intesa» - per pm e gip - con Fini), permette di guardare a quell'indagine con perplessità. A farlo, per esempio, è il gip romano Simonetta D'Alessandro. Che nell'ordinanza d'arresto per Giancarlo Tulliani, non la manda a dire ai colleghi: «L'accertamento sopravvenuto di questi gravi fatti - scrive il giudice - fa apparire minimalista l'ipotesi delittuosa per la quale il pm di Roma aveva coltivato l'indagine - concludendola con archiviazione il 14 marzo 2011». Di certo gli inquirenti non si dannarono l'anima per trovare ciò in cui si sono poi imbattuti prima i colleghi milanesi - facendo emergere a margine di un'indagine per un finanziamento ad Atlantis da Bpm i rapporti tra Corallo, il broker Walfenzao e i Tulliani - e poi quelli romani, che hanno scoperto e seguito i flussi di denaro dai conti caraibici di Corallo a quelli «nostrani» della famiglia d'adozione di Fini. Indizio importante, quello dei soldi, ma trascurato. L'avessero scoperto sette anni fa, la storia sarebbe deflagrata in modo molto diverso. Come pure sarebbe stato interessante interrogare i vicini di casa che raccontarono di aver visto non solo Tulliani nell'appartamento, ma anche lo stesso Fini (che ha sempre negato). Si poteva sentire il costruttore Luciano Garzelli che si era occupato dei lavori di ristrutturazione, e magari si sarebbe recuperata prima quella email che lo stesso Garzelli spedì a Tulliani, invitandolo a stare «calmo e tranquillo» e lasciando intendere di avere le prove registrate che Fini avesse dormito in quella casa. Ma anche questo non è stato fatto, anche quei testimoni sono stati trascurati. E sono in buona compagnia. Perché è toccata la stessa sorte a Davide Russo, il dipendente del mobilificio Castellucci, che al Giornale disse d'aver visto Fini e compagna in negozio, più volte, intenti a ordinare la cucina destinata a boulevard Princesse Charlotte.

Forse qualcuno che avrebbe dovuto indagare aveva preso per buona la panzana della «macchina del fango». O forse, come dice oggi il grande accusatore di Fini, Amedeo Laboccetta, l'ex leader ha ormai «perso le coperture».

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