Nella pancia delle Generali ci sono 530 miliardi di asset gestiti, di cui 400 di riserve. Questi sono i premi pagati dai suoi assicurati. Ovvero il tesoro che la compagnia ha accumulato nel tempo per far fronte alle liquidazioni danni o alle erogazioni di capitale Vita. Viene gestito secondo diversi criteri, investito in ogni possibile tipo di valore mobiliare e immobiliare. Compreso il cash (nell'ultima semestrale risultano 12 miliardi in contanti). Tutto ciò è orchestrato nell'interesse della compagnia, dei suoi azionisti e dei suoi clienti. Ma anche del Paese: è sempre stato così. Vedi i 70 miliardi di titoli di Stato in portafoglio.
È questo che rende la società triestina speciale. Niente a che vedere con una banca perché le riserve sono talmente elevate che sono sempre state utilizzate anche per questioni di «sistema». O di potere. Ecco perché possono finire in Francia gli occhiali di Luxottica, in Germania il cemento di Italcementi o in Cina gli pneumatici di Pirelli: al limite è tutto humanum. Non le assicurazioni: sarebbe diabolicum, come disse l'avvocato Agnelli proprio a proposito di Fondiaria quando, esattamente trent'anni fa, Mario Schimberni tentò di sfilarla, tanto per cambiare, alla galassia Mediobanca.
Ma se oggi Generali rischia di andarsene via, verso la Francia di Axa, non è solo una questione di mercato. Ma è perché in questi ultimi quindici anni, dopo la scomparsa di Enrico Cuccia, il «sistema» ha allentato la guardia. Le banche si sono indebolite e in Mediobanca sono scomparsi i contrappesi. Con il risultato che la convenienza di pochi grandi azionisti e di qualche manager compiacente per motivi di poltrone e stipendio rischia di prendere il sopravvento sull'interesse generale, senza che nessuno alzi la voce. In questa battaglia sul futuro nazionale delle Generali si gioca infatti anche il futuro di Mediobanca: o la banca d'affari fondata 70 anni fa da Enrico Cuccia troverà la forza di tornare a essere il fulcro degli interessi del capitale privato nazionale, o finirà la sua corsa ridotta a boutique finanziaria piuttosto che a branch per l'investment banking di qualche colosso bancario tipo Unicredit.
Se Generali è arrivata a questo punto non è dunque un accidente. E pure le istituzioni ci hanno messo del loro. Sarebbe ora il caso che battessero un colpo per rimediare al terribile errore commesso tre anni fa quando, per rispettare un'inesistente conflitto d'interesse, Bankitalia decise di alienare il 4,5% della compagnia detenuto da oltre mezzo secolo nei suoi fondi pensione. Una follia perché il presunto conflitto derivava dall'aver assorbito l'Isvap, Authority delle assicurazioni, in un istituto interno, l'Ivass. Eppure, da che mondo è mondo, i legami da sciogliere sono quelli del controllato sul controllante. Non viceversa. Così quel 4,5% finì alla Cassa Depositi e Prestiti, nel Fondo Strategico. Il quale però si impegnò a cederlo subito, entro tre anni (operazione conclusa nel 2015). Una decisione conseguente alla sciagurata levata di scudi dei grandi soci di Generali legati a Mediobanca, che inneggiarono alla «vendita sul mercato», e dello stesso management triestino: il presidente Gabriele Galateri aveva pubblicamente sottolineato come fosse «molto positivo tutto quello che ci tiene lontani dalla politica e da cose che possono disturbare la gestione della società».
Il risultato è sotto gli occhi di tutti e fa anche pensar male: come se far saltare gli equilibri e diminuire la stabilità dell'azionariato del Leone fosse un progetto studiato e partito da lontano. Naturalmente non ci sono elementi.
Ma ne dubbio il Mef, per rimediare alla leggerezza dell'allora ministro Saccomanni, potrebbe attivarsi presto, in sintonia con Intesa Sanpaolo, presso la Cdp (che ha nel suo capitale anche le Fondazioni azioniste di Intesa). Magari sempre attraverso il Fondo Strategico Italiano, ribattezzato nel frattempo Cdp Equity: se non sono strategiche le Generali, che cosa lo è?
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