Macché golpe, ma quale rottamazione. Sostituire Enrico Letta a Palazzo Chigi nel 2014, sostiene Matteo Renzi, «è stata soltanto un'operazione di democrazia interna, giusta per il Pd e per il Paese». Anzi, di più: a volere il cambio «è stata in primis la minoranza del partito», cioè i bersaniani. Una scelta «che io ho pagato in termini di reputazione», comunque una scelta obbligata. «Il governo - ricorda l'ex premier - era bloccato. Non è un caso se nessuno rammenta un solo provvedimento degno di questo nome in un anno di vita di quell'esecutivo, se escludiamo l'aumento dell'Iva dell'ottobre del 2013. E così dopo il successo ai gazebo, Roberto Speranza mi propose di prendere il timone: «Matteo, così non andiamo da nessuna parte. Hai vinto le primarie, rilancia tu il Paese andando a governare». E Letta? Non l'ha presa bene, però tace. «Sono in fase zen, il silenzio esprime meglio il disgusto e mantiene le distanze da scomposte provocazioni. Gli italiani sanno giudicare».
La versione di Renzi è nero su bianco sul suo libro Avanti, che, dopo le quotidiane e sbocconcellate anticipazioni uscite in questi giorni, ora viene presentato al Maxxi, il museo disegnato da Zaha Hadid. «Enrico stai sereno», twittava all'epoca il segretario del Nazareno. Forse, a suo modo di vedere, era troppo sereno, nel senso che era fermo. «Accade semplicemente che il Pd decide di cambiare cavallo, lo fa dopo il voto alle primarie di due milioni di persone alla luce del sole. Nessuno di noi ha ordito complotti segreti, ma si è presa una decisione perché quel governo non si muoveva». Poi, si lamenta Renzi, è stata raccontata come una manovra di Palazzo. «L'idea che si sia trattato di una coltellata alle spalle è una fake news alimentata da un nutrito club di editorialisti monotoni». Certo, colpa della stampa.
Tre anni dopo Matteo giura di non voler far polemica, anzi di aver scritto il libro per «mettere l'accento sugli aspetti umani» della politica. Però la ferita con Letta deve sanguinare ancora parecchio. «Le ricostruzioni mettono in scena un golpe in piena regola, come se Letta fosse stato usurpato da chissà quale investitura democratica o popolare, quando invece la sua designazione nel 2013 non era stata decisa da alcun organismo di partito o voto popolare: l'unica volta in cui Enrico si era candidato alle primarie nel 2007 aveva raccolto la miseria dell'11% di voti. Più o meno la stessa percentuale di Civati qualche anno più tardi». Veleno puro.
Ma non basta. «La democrazia non nuoce gravemente alla salute. Letta però entra in modalità broncio». Ed ancora: «Fare la vittima funziona sempre in un Paese in cui si ha sempre più simpatia per chi non ce la fa che per chi ci prova. Ci sono intere carriere costruite sul vittimismo anziché sul risultato. Peccato che questo accada a spese di uno dei momenti che per definizione devono essere giocati all'insegna del fair play, sempre». Come l'ormai storico musino di Letta alla cerimonia della consegna della campanella.
Poi la vita va avanti, non ci sono solo salti nel passato, ma anche ritorni al futuro. Come nel 2014, Renzi oggi è segretario del Pd e a Palazzo Chigi c'è un governo amico. «Mi sono dimesso e do una mano a Gentiloni che lavora bene. Cosa succederà per il futuro? Lo decideranno gli italiani». Giura che la promessa di lasciare la politica in caso di sconfitta al referendum fosse sincera: «Volevo smettere davvero» e a fargli cambiare idea furono «26mila mail di quei giorni e che dicevano non è colpa tua, torna a combattere».
Chiude con qualche pillola d'attualità. Sui migranti «bisogna cambiare il Trattato di Dublino, che andava bene 15 anni fa, e bloccare le partenze dalla Libia». Sul fiscal compact: «Bruxelles non ha la verità assoluta».
Sullo ius soli «non ci sono divisioni tra Pd e governo». E sui Cinque Stelle. «Sarei preoccupato se la politica estera venisse gestita da chi ha dubbi sull'allunaggio o sostiene che il Venezuela deve mediare per la Libia».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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