Oggi all'orizzonte c'è addirittura un coprifuoco. Scenari mai immaginabili prima della pandemia. E pensare che nei primi anni Dieci di questo secolo, con il Paese appena precipitato in quella crisi e in quell'altra recessione, l'opinione pubblica è stata a lungo concentrata su un tema oggi quasi sparito dal radar: le banche. Prima il crac del Monte dei Paschi di Siena; poi la «risoluzione», insieme con altri istituti minori, della Banca Popolare dell'Etruria. Due storie che avevano nel centro del mirino il Partito democratico. Che sulla bulimia di poltrone bancarie e la scarsa trasparenza nei rapporti tra amministratori e politica, si è giocato nel tempo un bel pacco di voti. Forse anche le elezioni del 2011.
Il cortocircuito affari-politica dell'ex Pci arriva da lontano, avendo tra i precedenti più illustri «la merchant bank di palazzo Chigi» ai tempi di Massimo D'Alema, e il pasticciato progetto Unipol-Bnl («abbiamo una banca») scoppiato in mano a Piero Fassino. La cosa sembrava appartenere ormai al passato. Invece, a sorpresa, l'altro ieri siamo tornati indietro di chissà quanti anni. Come il Pil.
Così, in un pomeriggio segnato come tutti questi dall'ansia per un'altra ondata del virus, si è appreso che la seconda banca italiana (che un tempo non lontano era la prima) aveva indicato Pier Carlo Padoan come suo prossimo presidente: un deputato del Pd, ex ministro dell'Economia nei governi Renzi e Gentiloni, per il vertice di Unicredit.
L'operazione ha sorpreso un po' tutti per la spregiudicatezza: posto che nessuno può mettere in discussione le qualità dell'economista Padoan - un prestigioso passato al Fmi e all'Ocse - mai si era arrivati a indicare un deputato in carica per il vertice di una banca. Come se un passaggio diretto di questo tipo non implicasse una lunga serie di conflitti e incompatibilità. Senza poi contare la forzatura istituzionale effettuata da Padoan: di fronte al comunicato di Unicredit che ne annuncia l'immediata cooptazione in consiglio, l'ex ministro poteva cavarsela con una dichiarazione di circostanza. Invece dice: «Sono onorato di essere stato designato presidente... e confermo l'intenzione di lasciare il mio ruolo di parlamentare». Dimenticando che le dimissioni da Camera e Senato non sono scontate: devono essere accettate dal voto dell'Aula. Immediata la reazione delle opposizioni. Ma anche quella dei Cinque stelle, il cui gruppo parlamentare ha sùbito ricordato come quella contro le «porte girevoli» tra politica e finanza sia una battaglia identitaria del Movimento.
Ma i grillini sono poi scesi in campo, ieri, anche per la condanna di Alessandro Profumo, sei anni in primo grado, per un bilancio firmato da presidente di Mps nel 2015 e per aggiotaggio: «Ci aspettiamo che Profumo rimetta il mandato di ad di Leonardo» si legge nell'account twitter del M5s.
Le due vicende sono incredibilmente connesse: Mps è la banca di Siena (il collegio di Padoan), salvata dallo Stato, dove il Pd aveva mandato Profumo dopo che era burrascosamente uscito da quella Unicredit dove oggi approda Padoan per farla sposare proprio con Mps, di cui il governo giallorosso si deve liberare entro il 2021. Mentre Profumo ha nel frattempo trovato posto alla guida della ex Finmeccanica.
Non è invece incredibile che entrambe le partite trovino di nuovo il Pd al
centro della scena, come a perpetuare un antico vizietto. E nemmeno che le critiche peggiori arrivino dall'alleato 5Stelle: dietro alla questione identitaria il Movimento ha presto imparato il valore di nomine e poltrone.
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